Fare “la Tav” è cosa utile o dannosa? Credo che si debba iniziare chiedendosi cosa sia “la Tav”. Tav vuole dire “treno ad alta velocità”; chissà perché il treno è diventato femminile (la): forse perché ormai Tav è divenuto un simbolo astratto dentro cui ciascuno può vederci quello che vuole. Riecheggia la contrapposizione tra popolo ed élite (come non ricordare “La Locomotiva” di Guccini che raccontava lo sdegno del ferroviere verso quel “treno pieno di signori”), anche se tutti quelli che hanno viaggiato sui nuovi treni hanno visto che sono usati da tutti.



Dal punto di vista oggettivo, quello di cui si discute è se sia opportuno o meno sostituire un tratto di ferrovia dell’Ottocento, che si arrampica tra Italia e Francia per poter attraversare in galleria la montagna dove è più stretta, con un tratto di ferrovia moderno, che usando una galleria più lunga, permetta di evitare salite e discese, che fanno perdere tempo, consumare energia e limitano quello che i treni possono trasportare.



Tutto qui? No, c’è molto di più.

L’Unione Europea ha sviluppato, in accordo con tutti gli Stati tra cui l’Italia, un grande progetto di rete di trasporto che ha come scopo favorire l’integrazione tra le nazioni e le regioni europee. All’interno di questo progetto, che prevede l’utilizzo di tutti i modi di trasporto, alla ferrovia è assegnato un ruolo privilegiato, per motivi politici, sociali, ambientali e industriali. In particolare, l’Italia e la Francia si sono impegnate, con un trattato internazionale, a sostituire questo pezzo di rete ferroviaria che non si può utilizzare con treni moderni e l’Unione Europea a pagare il 40% del costo della galleria.



La costruzione della galleria, quindi, non è tanto la risposta a un problema (infrastruttura vecchia) quanto lo strumento per realizzare un progetto molto più ambizioso: chiederci “se la Tav va bene” significa chiederci se vogliamo procedere verso un’Europa più integrata, oppure vogliamo chiuderci entro i nostri ristretti confini e confrontarci, da soli noi 65 milioni di italiani, con il resto del mondo, Cina, Usa e Russia compresi.

Per questo è assurdo avere pensato che una Analisi costi-benefici, fatta da cinque ingegneri, possa dire se questo disegno sia utile o dannoso: la scelta è politica nel senso alto e nobile del termine ed è già stata fatta. La Repubblica Italiana ha approvato con il suo parlamento il progetto di rete europea, ha accolto tra le sue leggi le direttive europee che ne fissano gli obiettivi di realizzazione, ha sottoscritto con Austria e Francia trattati internazionali nei quali ha chiesto e offerto impegni. Soprattutto ha già scavato chilometri di gallerie.

Siamo tutti preoccupati per il futuro nostro e dei nostri figli: l’economia va male, c’è disoccupazione e molti sono poveri. Possiamo spendere soldi per fare una galleria? Sì, perché ci aiuta oggi e ci aiuterà in futuro. Noi siamo una “economia di trasformazione”: la nostra ricchezza non l’abbiamo sottoterra (e anche se l’avessimo c’è chi non vorrebbe tirarla fuori) ma importiamo materie prime che lavoriamo e poi esportiamo. Non solo, gran parte di quello che consumiamo arriva dall’estero. Avere sistemi di trasporto moderni ed efficienti è per noi essenziale: più competitività per le imprese, più posti di lavoro; meno costi di trasporto, prezzi più bassi al supermercato.

Questo in futuro, ma oggi? Per costruire la galleria occorrono operai e tecnici, autisti e personale di servizio. E’ stato calcolato che saranno necessari, da parte italiana, circa 5mila addetti all’anno per 10 anni, la maggior parte di loro in settori diversi dalle costruzioni. Lavoro vero, che serve per produrre qualcosa che servirà per secoli, non sussidi in attesa di trovare, forse, un lavoro.

Torniamo però un attimo all’Analisi costi-benefici: abbiamo capito che c’è in gioco molto di più, ma è possibile che gli esperti abbiamo idee così differenti su come farla? E’ vero che si può far dire a questa analisi quello che si vuole? In parte sì: la torta viene diversa a seconda di cosa ci metti dentro e di quale ricetta usi. Proprio per questo motivo la Commissione europea e il ministero dei Trasporti italiano hanno emanato delle “linee guida”, una sorta di ricetta standard ufficiale: chi vuole ricevere i finanziamenti europei e dello stato italiano deve realizzare un’analisi costi-benefici seguendo quella specifica versione della metodologia. Questo agevola il confronto tra diverse richieste ed evita che si scelga di volta in volta la metodologia più favorevole. Il gruppo di lavoro incaricato dal ministro Toninelli non segue queste linee guida, ritenendo di avere una metodologia migliore e più completa. Molti esperti, tra cui io, non concordano con le scelte fatte da loro ma, ciò che importa di più, è che lo stesso ministero non condivide a fondo la loro impostazione.

Si vada sul sito del ministero e si guardi la documentazione delle analisi prodotte per il Terzo Valico di Genova, le uniche finora rese pubbliche. Ci sono due documenti, più una scheda sintetica. Dei due documenti analitici uno è su carta intestata del ministero ed è intitolato “Valutazione …”; l’altro, su carta bianca, è citato come “Allegato 1”, ed è il documento del gruppo di lavoro Ponti. Il documento ufficiale dice con chiarezza che “la scelta metodologica di considerare tra i costi la perdita di accise sui carburanti per lo stato, non è pienamente [corsivo nostro] in linea con le linee guida del Ministero ed europee.” Il documento ufficiale del ministero presenta quindi, al paragrafo risultati, non un risultato ma due, che differiscono tra loro di circa 900 milioni (!), indicando in modo evidente di non “sposare” la valutazione del gruppo di consulenti.

Il punto principale di scostamento tra la metodologia Ponti e le linee guida CE e Mit (ma ce ne sono altri) è che il primo considera un “costo” le minori tasse sui carburanti (accise) che lo stato incasserà. La versione standard dell’Analisi costi benefici considera “costo” una risorsa sottratta a un uso alternativo: se uso il cemento per fare la galleria quello stesso cemento non lo posso usare per fare una scuola. Invece, se lo Stato non incassa la tassa, quei soldi non sono “consumati” ma rimangono a disposizione per un uso alternativo e non sono quindi un costo.

La guerra dei No Tav contro le “élite intellettuali”, che decidono senza consultarsi con il popolo, sta ottenendo solo di sostituire alcuni intellettuali con altri, che decidono anch’essi nel chiuso delle proprie stanze e senza spiegare come: per questo, ogni sforzo per far capire anche ai non tecnici di cosa si stia parlando è finalmente una novità.