Le difficoltà di quello che una volta pareva l’imbattibile M5s paiono evidenti dalle immagini accoppiate dei due leader, quello del presente, Luigi Di Maio, e quello del futuro, Alessandro Di Battista. Come a dire: uno non basta più; Di Maio, attuale vice premier, è consumato, in via di “estinzione” politica.

Così dalla regia del M5s, Beppe Grillo, la Casaleggio, arrivano annunci tipo: “ritorneremo”, a sottolineare che i sondaggi denunciano un calo dei voti futuri.



In realtà però gli spazi di ritorno del M5s sono stretti. I giovani Di Maio e Di Battista (li chiamiamo “Di-Di”?) sono accusati di avere favorito o almeno coperto affarucci o malaffare di famiglia quindi hanno bruciato l’identità “onestà-onestà” del movimento.

Sulla politica non sono riusciti ad avere un colpo d’ala. Il tema principale dello scontro continua da mesi a essere quello dei migranti, anche se i numeri sono ormai pressoché simbolici, poche decine rispetto alle decine di migliaia di qualche anno fa.



Qui gli M5s sono al traino della Lega, non hanno una posizione propria. Se il movimento resta zitto appoggia di fatto la Lega; se difende i migranti, si accosta alle posizioni di quello che certa opinione pubblica vicino al Pd rappresenta come il “partito del Papa e del presidente Mattarella”.

Questi ultimi continuano a sottolineare un’alta posizione morale, quasi ovvia per il ruolo delle due istituzioni, che però non sono un partito; posizione che andrebbe declinata politicamente in maniera reale. Tale declinazione, dopo l’uscita dell’ex ministro degli interni Marco Minniti (antesignano della linea Salvini) però manca, gli M5s ne sono incapaci, e quindi si ritorna al Pd.



In teoria per l’M5s fare il neo-Pd potrebbe anche funzionare, ma assorbire la storia e le strutture del Pd, che continuano a essere importanti sul territorio non è semplice, e forse è al di là delle capacità movimentistiche del duo “Di-Di”.

Allora la scelta per il pubblico resta fra il buonismo dell’opinione pubblica “para-Pd” (giustificata dietro il gonfalone “Papa + Mattarella”) che non propone idee per fermare l’emigrazione, e il “cattivismo” della Lega che affronta l’emigrazione con slogan esagerati, melodrammatici a cui la gente può aderire di pancia sapendo che poi al momento pratico nessuno sarà poi così truculento.

Così tra buonismo impotente e cattivismo melodrammatico chi potrà mai vincere? Quale scelta appare più realista? Sicuramente il cattivismo melodrammatico, che almeno dà una risposta più pratica alla questione social-culturale dell’emigrazione.

Questo è il tema profondo che ha trainato il voto in Gran Bretagna sul Brexit, ha fatto vincere Donald Trump in America e muove il populismo in Europa. Questo è un sentimento complesso, non semplicemente un mostro nascosto del nostro animo.

È parte della vecchia cultura europea (in Europa o in America) che si sente in declino, che ha smesso di avere speranze per il futuro, che è stufa di sentirsi in colpa per le sue legittime paure di cambiamento perché il suo futuro sarà peggio del suo passato, che si sente emarginata dalle classi dominanti occidentali globaliste e dal suo buonismo chic.

A queste classi bisognerebbe parlare in senso positivo, dare speranze, obiettivi, nuovo orgoglio. A questi parlano la Lega, i Brexiters, i Trump e i populisti di mezza Europa che hanno individuato uno spazio per una semi-ideologia del “no”, quella degli “odiatori”: veri o soltanto ritenuti tali, ora non importa.

Da qui due morali. 1. La più semplice: l’M5s che aveva intercettato uno scontento, non lo ha davvero capito e lo sta perdendo a favore della Lega che invece per ora lo mantiene. Quindi addio M5s. 2. La più complessa: se si attacca la semi-ideologia del “no” senza fornire alternative concrete, senza parlare, senza accostarsi al pubblico che li appoggia, di fatto si aiuta la diffusione degli “odiatori”, perché odio contro odio gli “odiatori” vincono, e si conferma che sono l’unica risposta: quindi Lega, Brexiters, Trump e populisti di mezza Europa sono qui per restare.