Sono arrivati i dati della produzione industriale e quelli che trimestralmente misurano l’andamento della situazione economica. All’improvviso e per fortuna, si dimenticano le “dispute palabratiche” di dubbio gusto e si ritorna almeno a cercare di leggere la realtà, i problemi delle persone, le paurose contraddizioni sociali e i contraccolpi politici che, mai come in questa fase storica, ci sono stati, ci sono e sicuramente ci saranno.



Questa volta il coro dei “giornaloni e giornalini” italiani indica, con titoli dal tono diverso, che per il secondo trimestre consecutivo il numero delle crescita, in Italia e anche in Europa, è  negativo. Secondo i parametri stabiliti da alcuni economisti, ci si troverebbe quindi di fronte a quella che si chiama tecnicamente recessione. Ma altri economisti cambiano le valutazioni e quindi, già adesso, ma soprattutto nei prossimi giorni, avremo valutazioni differenziate e analisi di “raffinatezza” noiosa, con una distribuzione delle responsabilità di quello che accade che sarà grottesca da decifrare. Intanto la realtà incalza.



Il problema non è solo italiano, anche se la gara degli scontri tra i cosiddetti “dioscuri”, Di Maio e Salvini, è un must mondiale di impoverimento delle forze politiche emergenti dopo la breve comparsa delle élites apparse negli anni Novanta, quelle che erano nate già vecchie e che si erano rafforzate con il neoliberismo vincente, fino all’amara scoperta del 2008.

Padri e figli dell’era post-ideologica e del crollo del Muro di Berlino, sono riusciti a creare un disastro sistemico con novità economiche e istituzionali che sguazzano purtroppo nella “modernità liquida” e fanno vacillare anche il vecchio assetto della democrazia rappresentativa.



Che cosa dire a Luigi Di Maio che, armato di una manovra di bilancio sedicente espansiva, senza investimenti significativi, dichiara:  presto ci sarà un nuovo boom economico italiano? Forse bisognerebbe consigliargli la lettura di un celebre libro di François Marie Arouet, noto come Voltaire. Il libro ha questo titolo:  Candido ovvero l’ottimismo. Ma ci sorge il dubbio che “giggino” non riuscirebbe a interpretare esattamente l’ironia.

Esiste giustamente un “ottimismo della volontà” che va coltivato, ma c’è anche ontologicamente un ottimismo da rimbambimento che provoca sfracelli, soprattutto se si ha la prerogativa di essere classe dirigente.

Ma non ci si può, all’alba del 2019, fermare all’Italia. Quando nel 2007, verso l’agosto di quell’anno, si cominciarono a vedere i segni di una crisi sistemica, tutti restarono immobili e fu necessario attendere l’esplosione drammatica del 2008 per comprendere che i teorici della finanziarizzazione generale e pure quella dell’economia reale, della completa deregolamentazione nello spostamento dei capitali, del nuovo ruolo delle banche e di una globalizzazione forzata avrebbero fatto crollare il grande sistema della democrazia occidentale e le sue conquiste di welfare e di benessere diffuso.

Per tappare i buchi del disastro, i seguaci di Friedrich von Hayek, di Milton Friedman, della signora Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, diventati “miti” anche per gran parte della sinistra mondiale, riscoprirono, in quel momento e sottobanco, lo Stato per avere un aiuto immediato. I teorici del libero mercato, costi quel che costi, ricorsero all’intervento statale.

Negli Stati Uniti ad esempio, i banchieri rampanti si presentarono al presidente dicendo: “O ci date tanto o domani questo mondo non esisterà più”. Anche il mitico e spavaldo Lloyd Blankfein, amministratore delegato della celeberrima Goldman Sachs, ottenne 125 miliardi di dollari per salvare la banca e licenziò 3mila dipendenti tra il novembre 2007 e il dicembre 2009.

Fu quasi sacrificata Lehman Brothers come esempio, ma tutti gli altri banchieri d’assalto ricorsero ai contribuenti americani, con una poco invidiabile faccia di bronzo. 

E non andò diversamente in Germania, Francia, Gran Bretagna e come si è visto in questi anni e in questi giorni neppure in Italia. Nel nuovo manifesto del liberismo c’è scritto che “la banca è un’impresa come tutte le altre che deve fare valore”, ma si sono dimenticati di aggiungere: se fallisce ci pensa lo Stato, cioè i contribuenti.

In realtà da quella crisi sistemica del 2008 non si è mai usciti veramente. Aggrappati in modo patetico e drammatico alle loro convinzioni, i teorici che la finanza e i suoi “prodotti da casinò” fanno valore e quindi vengono inseriti nel conteggio del Pil (fatto che tanti mettono in discussione) insistono, come tanti sedicenti economisti e teorici italiani del neoliberismo, che furono anche consulenti di Goldman Sachs e JP Morgan, a condannare soprattutto le teorie di Maynard Keynes e di Hyman Minsky, gli alfieri novecenteschi  di un’economia che guardava alla finanza solo in funzione di un aiuto all’economia reale e con un compito di spostamento di capitali che non può certo creare valore. Keynes e Minsky furono soprattutto i teorici di un capitalismo senza “laissez faire” e regolato socialmente, secondo le esigenze del welfare, i diritti del lavoro e contro quella concentrazione della ricchezza che crea diseguaglianze insopportabili per la tenuta di una democrazia.

Vogliamo mettere brevemente in fila i segni lasciati dalla grande crisi del 2008?

Crescono in politica, ovunque per usare lo schematico linguaggio moderno, forze sovraniste, populiste e nazionaliste. Diversi Paesi sono riusciti a recuperare il livello di produzione e ricchezza pre-crisi, ma non l’Italia e la Grecia. Aumenta la sfiducia in qualsiasi organizzazione sovranazionale e c’è un malessere crescente, soprattutto nella borghesia intesa come middle class, come classe media. Crescono in modo esponenziale le differenze sociali che mortificano la democrazia e aumentano le sacche di povertà e di malessere. Si calcolano milioni di poveri in Italia e in Europa.

Se si guarda in modo particolare all’Italia si può affermare che dal pressappochismo berlusconiano (anche dell’ultimo governo), passando per il loden austero del “ragionier” Mario Monti e poi alle acrobazie di Enrico Letta, Matteo Renzi e persino di Paolo Gentiloni, si sono attraversati (con quello in arrivo) tre cicli di recessione in dieci anni e si è ottenuto il successo politico di Di Maio e di Salvini.

l’Italia può essere un caso limite, ma la situazione francese è quella che si ripete in modo ossessivo ogni sabato con gli scontri sugli Champs-Élysées, mentre quella tedesca è sull’orlo di una crisi finanziaria drammatica per le sue banche, mentre assiste alla frenata della produzione industriale con gli stranguglioni per la caduta delle produzione automobilistica. Poi c’è la Gran Bretagna, mezzo dentro e mezzo fuori d’Europa per la Brexit, sull’orlo, secondo alcuni, di una catastrofe.

E’ possibile che, nonostante tutti questi segnali evidenti, reali, sotto gli occhi di tutti, non ci sia che una minoranza che, con ragionevolezza, invita almeno a ripensare le fondamenta di questo sistema? E’ possibile che in Italia si pensi solo a rivedere al massimo una manovra che si aspettava espansiva e che già si rivela del tutto inconsistente, soprattutto di fronte a una nuova crisi recessiva? Adesso, con una nuova recessione, come farà l’Europa a far rispettare i parametri ossessivi e sempre mal digeriti di Maastricht?

Dalla crisi economica, con tutte le implicazioni di carattere sociale che comporta, di fronte a una caduta culturale impressionante, con il destino umano di una maggioranza di cittadini fatta di isolamento, povertà, malessere, il salto verso un nuovo cortocircuito politico è inevitabile.

Si capisce bene perché questo governo inconsistente non crolli, nonostante le risse interne quotidiane. E si comprende anche perché la minoranza sia del tutto inesistente. Entrambi nascondono, mascherano la paura e l’incapacità di saper prendere una strada nuova con coraggio, magari con una visione in controtendenza rispetto al pensiero unico dominante, magari  facendo una ridiscussione approfondita del recente passato, degli errori che hanno portato a tutto questo.

Di fronte a una simile situazione, c’è la speranza che la protesta si fermi nelle urne. Ma la stabilità politica e democratica è destinata a essere continuamente a rischio. E non si può fare solo un calcolo sulle prossime elezioni europee. Il mondo post-ideologico apre nuove prospettive e presenta aspetti non valutabili. Può essere positivo, ma deve trovare un assestamento, altrimenti è destinato a continui mutamenti di opinione, di rovesciamenti e cambiamenti elettorali. Soprattutto è destinato a una pericolosa instabilità cronica politica e, di riflesso, sociale.