Quello che sembrava essere un tema interdetto dal discorso pubblico, il timore che accompagna, come una sorta di corollario, le riflessioni di chi prova a immaginare lo scenario peggiore, è comparso all’interno del dibattito che ha accompagnato l’avvio dell’iter che dovrebbe portare all’autonomia regionale differenziata.



Da più parti si è visto, in quello che sembra di fatto un percorso che dovrebbe portare a un sistema confederale, una minaccia per l’unità nazionale, come ha reso noto una recente analisi della Svimez. Che ci sia più bisogno di autonomia è un argomento che ormai mette tutti d’accordo, ma che ciò possa compromettere la solidarietà nazionale e che non possa garantire la legge 42 che prevede misure di perequazione territoriale, va da sé che è tutto un altro discorso.



L’avvio di questo processo, forse, avviene nel momento peggiore: l’incertezza politica ed economica che caratterizza questa fase avrebbe consigliato di affrontare un tema così delicato per l’assetto istituzionale una volta che la crisi attuale si fosse stabilizzata. Inoltre la composizione dell’attuale governo e il suo atteggiamento verso l’Europa rischiano di amplificare gli elementi distorsivi che accompagnano l’attuazione dell’autonomia differenziata.

La riemersione all’interno della compagine governativa del “blocco storico” in cui coesistono gli interessi contrapposti dei ceti produttivi del Nord e consistenti parti della popolazione meridionale che reclamano protezione e assistenza sociale, non sembra esprimere una classe dirigente in grado di garantire un’egemonia capace di superare le intemperie che potrebbero palesarsi nel 2019; il carattere antisistemico che caratterizza i populismi nostrani si declina su base territoriale ed esprime interessi che difficilmente possono coesistere. A meno che non si sia convinti che il reddito di cittadinanza possa innescare gli effetti amplificativi della spesa pubblica in grado da fungere da moltiplicatore dei consumi e quindi garantendo un mercato interno per le imprese del Nord – vedendo, cioè, Keynes dove non c’è –, risulta assai difficile immaginare come la base sociale di questo governo possa rispondere all’inasprimento della crisi dell’Eurozona e alle conseguenze di una Bce a guida tedesca che dovrebbe dare voce alle aspirazioni dei Paesi “virtuosi”.



Senza una classe dirigente in grado di ricomporre i variegati interessi locali, e se la rappresentanza è solo il megafono della voce indifferenziata di un ribellismo diffuso, le differenze territoriali potrebbero deflagrare. Non risulta, quindi, difficile immaginare come il Paese reagirebbe all’implosione dell’Eurozona e al contempo prevedere dove approderebbero i destini divergenti delle due macro-aree del Paese.

Per il Nord rimanere legato alla periferia dell’Europa potrebbe compromettere la storica interconnessione con i mercati tedeschi, sbocco privilegiato per i suoi semilavorati, la siderurgia e la chimica, e al contempo immaginare Milano, la capitale finanziaria, lontano dai circuiti che contano è perlomeno alquanto difficile. Viceversa il Sud si addentrerebbe in una zona d’ombra di cui risulta arduo tracciare confini, ma di sicuro la questione del debito pubblico vivrebbe il suo esito più drammatico, in un improbabile rimpallo di responsabilità.

Le debolezze del Sistema Paese, di cui questo governo è la rappresentazione macroscopica, appaiono anche amplificate dalle incertezze geopolitiche in cui la recrudescenza della politica di potenza delle grandi nazioni sembra ormai riverberarsi anche sui Paesi semi-periferici. Il teatro del Mediterraneo sembra essere entrato in una lunga transizione, in cui la rinnovata centralità deve fare i conti con il mutamento dell’assetto geo-economico, se l’Italia ha giocato per anni la funzione di Paese stabilizzatore, adesso potrebbe essere coinvolto dalla crescente instabilità, che ha nell’area compresa fra la Siria e la Turchia il suo epicentro.

Si riscontra una certa stanchezza quando si parla d’Italia, sentimento che paradossalmente si riscontra sia fra chi vuole un’Europa più forte e più tedesca e sia all’interno del composito schieramento, caratterizzato da alleanze instabili e mutevoli, che vuole liberarsene.

Il Mediterraneo fa gola a molti e la sua spartizione in diverse aree d’influenza potrebbe avvenire ai danni dell’unità territoriale del Paese. Uno scenario cupo che lancia un’ombra sul 2019 e che al momento sembra più un esercizio per studiosi, ma che comunque richiederebbe la presenza di una classe dirigente in grado di avere un’idea chiara del Paese, qualcosa che al momento non si riscontra in questo governo, in cui le differenze territoriali sembrano avere solo una ricomposizione nel breve periodo, mentre sul piano strategico le incognite rimangono tantissime e il timore che queste possano fare il gioco di chi immagina un futuro costruito ai danni dell’unità territoriale del Paese purtroppo al momento pare fondato.