Caro direttore,
analizzare come il mondo di sinistra – o quello che generalmente viene definito tale – reagisce al modo con cui il ministro degli Interni, Matteo Salvini, si manifesta sui media è un esercizio interessante. Quello che muove un certo tipo di commentatori di sinistra è qualcosa di simile a una vera e propria repulsione, a un rigetto viscerale. Un fenomeno assimilabile al modo con cui la sinistra reagì all’avvento di Berlusconi; oggi come allora si commentava con disgusto un soggetto che era visto come il portatore di un’alterità antropologica irriducibile. Un leader che in modo inequivocabile rappresentava l’emersione delle aspirazioni e della paure di una parte profonda del paese, oggi come allora muove una reazione viscerale non immediatamente riconducibile a una costellazione concettuale valoriale o programmatica; Berlusconi come Salvini ha trovato un’opposizione più di natura estetica che politica.



Ai due leader populisti – il populismo in Italia non ha una storia recente, ma rappresenta una corrente progressivamente più forte che si afferma sulle spoglie della Prima Repubblica e viaggia parallelamente all’affermazione dei partiti personali – inclini a governare a colpi di slogan e frasi ad effetto, il variegato mondo della sinistra non ha saputo che opporre gli strumenti dell’indignazione e dello sdegno. Sull’utilizzo strumentale del monopolio della morale di una certa sinistra si è discusso a lungo – “Nessuno mente più dell’indignato”, sentenziava Nietzsche -, ma c’è molto da riflettere sull’incapacità di capire l’estetica che alimenta la rappresentazione della leadership di Berlusconi ieri e di Salvini oggi.



La leadership di Salvini è ammantata di un’aurea nazional-popolare intesa come l’evoluzione mediatizzata del concetto gramsciano, che sia la sinistra a non capirlo è particolarmente indicativo. Non si tratta semplicemente della riproposizione di uno dei vizi della sinistra nazionale, che arroccata nelle sue torri d’avorio guarda con disgusto le forme con cui si esprime l’Italia più profonda che coi social ha trovato una vetrina in perenne aggiornamento. È il sintomo di un’incapacità di incidere sui linguaggi e sulle forme della società italiana, è una ripulsa di natura estetica verso qualcosa che si vede come immodificabile, disgustoso e in ultima analisi, spesso a ragione, pericoloso.



Salvini non è diverso dai suoi elettori: è immediata l’identificazione dell’Italia più profonda, di chi si sveglia la mattina e immediatamente posta sui social il suo buongiorno magari fotografando quello che ha appena mangiato. Egli, come il primo Berlusconi, non vuole cambiare il suo elettorato, ma rappresentarne pulsioni, paure e aspirazioni. In un’estetica rovesciata il leader è quello che dà forma a ciò che è ormai l’italianità. Nazional-popolare nel senso in cui è il secondo elemento della coppia concettuale a prevalere. Un popolo che non riesce a divenire un popolo-nazione, non ha neanche bisogno di un leader carismatico in grado di avviare un processo di cambiamento profondo, ma piuttosto finisce per essere ammaliato da un demagogo e dalla sua estetica populista.

Va da sé che in un quadro del genere il populismo non è semplicemente il frutto di una strategia, quanto piuttosto il destino di un popolo, diviso fra particolarismi e da un annoso divario economico, e che non riesce ad essere consapevolmente nazione. Il populismo demagogico è la forma estetica di un non-programma-politico, di un’autorappresentazione vuota che non ha bisogno di una strategia, semplicemente si limita a manifestarsi in modo assertorio ed identitario. È la cinica riproposizione della “superiorità tattica del vuoto” profondamente anti-politica in quanto negazione di ogni progetto che in epoca di social si amplifica fino a negare tutto ciò che non è immagine di facile fruizione. Una leadership che rinuncia ad essere egemone perché non vuole fungere da soggetto in grado di dare una direzione morale e intellettuale alla società e volontariamente abdica a qualsiasi funzione pedagogica, esprimendo in forma mediatizzata ed elementare una volontà collettiva incapace di esprimere un’idea compiuta di ciò che è o che vuole essere.

Una volta che nel calderone indistinto dei social-media è saltata ogni distinzione fra cultura alta e bassa, la sinistra è incapace di farsi ascoltare se non riproponendo le forme del linguaggio populista, finendo per giocare su un campo da gioco di cui non conosce né le regole né gli strumenti. Non è un caso che l’opposizione a Salvini è spesso incarnata da soggetti che ne ribaltano le forme e i linguaggi, che semplicemente contrappongono in modo strumentale un’identità esibita a un’altra, narrazioni ad altre narrazioni, slogan vuoti ad altri slogan. Riducendo la politica a una questione estetica, la battaglia si sposta così su un campo in cui saranno sempre leader della natura di Salvini a vincere.

Il cosmopolitismo degli intellettuali e di una certa sinistra non è solo una scelta, ma il risultato dell’incapacità di essere autenticamente nazional-popolari e di riuscire ad operare una sintesi fra la cultura nazionale e l’estetica popolare. Come leggere altrimenti la contrapposizione fra élite e sovranisti? Il suo fallimento consegna inevitabilmente il paese a leader demagogici e populisti, che rappresentano la forma più immediata e deleteria del carattere nazional-popolare del paese. Con la rimozione dal dibattito pubblico della materialità di ogni questione politica-nazionale e politico-economica, in poche parole della realtà per quello che è, non rimane che provare a destreggiarsi in un gioco di ombre in cui solo le forme estetiche del populismo e del ribellismo fine a se stesso riescono a brillare.

Affrontare un problema simile richiederebbe uno sforzo d’analisi che dovrebbe ripartire da grandi temi come il carattere nazionale degli italiani e su che direzione deve prendere il paese. Questioni che presuppongono la ricerca di un “modello” nazionale di sviluppo economico e civile e quindi il compimento dell’unificazione nazionale, mentre fino a questo momento le classi dirigenti nostrane si sono limitate ad importare dall’estero soluzioni e ricette – tendenza che Gramsci aveva già riscontrato fra gli intellettuali italiani che aveva definito “cosmopoliti” – a problemi che al momento trovano la loro risposta semplificata e demagogica soltanto nel fronte sovranista-populista e nel suo leader nazional-popolare. Trovare un’alternativa a questa prospettiva richiederebbe il coraggio e la tensione politica di chi, come Gramsci, rifletté in modo impietoso sul carattere nazionale.