E’ stato il grande assente dalle cronache politiche di questi giorni, ma è il fatto più rilevante nella politica europea dopo la Brexit e, “in qualche misura, ne è una conseguenza diretta” spiega Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano. Oggi ad Aquisgrana Emmanuel Macron e Angela Merkel firmeranno un nuovo Trattato di cooperazione e di integrazione franco-tedesco. Una firma che dovrebbe sollevare più di un interrogativo nel ceto “pensante” dell’europeismo nostrano: proprio nella città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno, Merkel e Macron, alla bisogna sovranisti veri, sottoscrivono un trattato politico-militare che “formalizza quell’idea di Europa core che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario”. E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? Basta leggere il testo.



“Quel che è certo – spiega Mangia – è che questo Trattato accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea. Il Regno Unito è stato, fino al 2016, il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici. Usciti di scena gli inglesi, che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso, gli equilibri di potenza in Europa sono saltati, il quadro è mutato, e lo spazio europeo si è improvvisamente contratto”.



E in che modo questo riequilibrio spiegherebbe l’operazione franco-tedesca?

Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna e il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto. Il Trattato è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo.

A cominciare dagli Stati Uniti.

Certo. Di fronte alle pressioni americane e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni, Francia e Germania se ne escono con questo Trattato che, almeno sulla carta, disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee.



A che cosa siamo di fronte?

A una struttura polifunzionale, destinata ad operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada, oppure, se lo sfaldamento accelera dopo le elezioni europee, come possibile piano B, che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa (Colonie francesi d’Africa, poi Comunità finanziaria africana, ndr).

E le ripercussioni sull’Unione Europea?

E’ vero che i Trattati vanno giudicati più per la loro attuazione successiva che per il loro contenuto formale, ma è chiaro che, in un caso o nell’altro, l’Unione diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale. Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata. Si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. In questo senso è qualcosa di nuovo e di diverso, che ricorda qualcosa della vecchia Comunità Europea di Difesa saltata negli anni 50 proprio per volontà francese. E’ evidente che questa è una Francia diversa.

Il Trattato celebra l’amicizia franco-tedesca e ne fa la chiave della pacificazione e della proiezione continentale: “l’amitié étroite entre la France et l’Allemagne a été déterminante et demeure un élément indispensable d’une Union européenne unie, efficace, souveraine et forte”. Non è la prova che la Ue favorisce la pace tra i popoli?

Che sia stata l’Unione Europea a favorire la pace in Europa è uno dei cavalli di battaglia della propaganda europeista degli ultimi anni. E che negli ultimi anni di crisi questo argomento sia stato speso a dimostrazione della irrinunciabilità dell’Unione a me, personalmente, è sempre sembrata, più che un’invocazione all’unità, una velata minaccia. In fondo equivale a dire che se mai si rompesse l’Unione si tornerebbe alla grande guerra civile europea che è cominciata nel 1914 e finita nel 1945. In realtà quella guerra civile è diventata impossibile non perché nel 1956 si è istituita la Cee, ma perché i paesi europei sono stati fatti confluire nel Comando integrato Nato. Mi spiega come sarebbe possibile occupare la Ruhr o tornare ad invadere la Polonia se si è tutti nel comando Nato? Questa è stata la vera garanzia di pace in Europa nel tempo, assieme, piaccia o non piaccia, all’ombrello nucleare americano.

Oggi c’è insofferenza in tutto il continente. Le scelte di Bruxelles sono contestate, se non dai governi, da partiti considerati “impresentabili” o anti-establishment che incrementano ad ogni tornata elettorale il loro consenso.

La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato ad infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese, si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista.

E’ stata presentata come un tentativo di rinforzare militarmente la Nato.

Invece, se ci pensa, era soprattutto un tentativo di riportare la bilancia dei pagamenti Usa-Ue su linee meno sfavorevoli agli americani. Del resto, al di fuori di armi e tecnologia militare, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. E infatti questo Trattato è un no chiaro e tondo alle richieste americane e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano. Che questo possa poi avvenire a breve avrei molti dubbi. Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo.

Veniamo al testo del Trattato. Quale tipo di cooperazione intendono instaurare Germania a Francia?

Il livello di cooperazione sulla carta è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune (art. 4); di un Consiglio dei ministri franco-tedesco (art. 23); di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli ministri dell’altro Stato (art. 24); di forme di verifica periodica dell’avanzamento della collaborazione, e via dicendo. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici: dopo i soliti impegni in materia di sicurezza esterna (difesa) e interna (ordine pubblico), all’art. 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. E’ chiaro che se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante.

Può essere più esplicito?

E’ molto semplice: se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea.

Qual è il vero progetto politico contenuto nel Trattato?

Mi sembra che ne contenga diversi. Al di là delle formule di rito, il Trattato in realtà fissa obiettivi nemmeno troppo generici in ambito militare e si prefigge di formalizzare, in questo ambito, quell’idea di Europa core che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione. Non è casuale che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma.

Il luogo simbolo del Sacro Romano Impero.

Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli ci si muove in una dimensione apertamente politica. Si ricorda le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì.

Facciamo chiarezza sui firmatari. Che convenienza ha la Francia di Macron a fare questo patto e che convenienza ha la Germania della Merkel?

Questo è il punto cui volevo alludere prima, quando parlavo del problema dell’attuazione dei Trattati. Al momento ci si trova di fronte ad una cancelliera quasi dimissionaria in patria, che però ha delle mire sulla prossima Commissione. Dall’altra parte abbiamo un presidente come Macron che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande, e che da dieci settimane si trova la città da cui dovrebbe governare messa a ferro e a fuoco nel weekend. E la cui unica strategia è lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime. Sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione.

E che sul breve periodo hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda.

Ma c’è anche dell’altro. In Germania si è consapevoli dell’obsolescenza e della debolezza della Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Non è che in Germania si risparmia solo sulle infrastrutture civili. Si è sempre risparmiato anche sulle spese militari, un po’ per ragioni di storia recente, un po’ perché si confidava nell’ombrello americano. Tant’è vero che dall’estate scorsa, dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra.

E qui, ci lasci indovinare, il partner ideale è la Francia.

Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare. La Francia di suo ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato; un esercito che, in modo molto francese, si definisce la “Quarta Armata” del mondo; ha capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi.

Sembra, lei dice. E invece?

Il fatto è che in quel Trattato ci sono cose che, agli occhi di un osservatore disincantato, sono oggettivamente divertenti, come ad esempio, l’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu. Perché anche di questo si è parlato di recente in Germania, oltre che di nucleare. Lei se le immagina le risate, non dico al Dipartimento di Stato, ma solo al Foreign Office inglese il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi? Con quello che stanno facendo passare al Governo britannico sulla Brexit? Per non parlare di Russia e Cina, che non aspettano altro di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali. E’ chiaro che questo è un classico esempio di obbligazione inesigibile. E mi stupisce che sia stata messa nero su bianco e presentata come un successo della diplomazia dalla stampa tedesca. Vogliamo definirlo il solito ottimismo della volontà tedesco?

Che ne è degli altri paesi e dell’Italia in particolare nel contesto di questo progetto di dominio?

Ecco, questa è la nota più dolente. Almeno a breve. E’ chiaro che un asse franco-tedesco, che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto  per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia. Lasciamo stare i discorsi sulle distanze che si sono allargate dal 2011 in poi. E’ chiaro che l’Italia è l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania. E si capisce che l’allargarsi di queste distanze ha contribuito a sfasciare quegli assetti che si erano consolidati dal 1956 in poi. Ed è questo uno dei punti di crisi dell’Unione, al di là della questioni spread e migranti. Questo patto, se mai avrà un effetto, avrà effetto soprattutto nei confronti dell’Italia e della sua industria militare che è diretta concorrente dell’industria francese. Un mercato in cui la Germania è sostanzialmente assente, a parte quegli U-boot che è riuscita smerciare alla Grecia dopo il 2011.

Un esempio di politica anti-italiana?

La richiesta di intervento avanzata nelle settimane scorse da parte francese all’Antitrust europeo sulla questione STX-Fincantieri, guarda caso direttamente e immediatamente appoggiata dalla Germania. Una richiesta avanzata un anno dopo quell’accordo ambiguo che era stato concluso dal Governo Gentiloni che prevedeva la spartizione 50/50 delle quote più il prestito dell’1% da parte francese. Dove alla fine non si capiva chi acquisiva chi. Chissà perché la Germania adesso si è accodata. E’ chiaro che, in presenza di accordi e Trattati del genere, tutti i discorsi sul mercato e la concorrenza, che sono la vera sostanza del diritto dell’Unione, finiscono per mostrarsi per quello che sono.

E cioè? Ripetiamolo, per favore, visto che è sempre utile.

Purissime petizioni di principio, che servono soltanto a mascherare rapporti di forza e perseguimento di interessi nazionali. Come in fondo è normale che sia, nonostante i discorsetti sulla solidarietà europea e i pensierini di Capodanno. 

(Federico Ferraù)