In origine la nostra Costituzione prevedeva un meccanismo di “giustizia politica” sia per il Presidente della Repubblica (come è ancor oggi nel caso si renda responsabile di alto tradimento o di attentato alla Costituzione: articolo 90) sia per i membri del Governo. Stabiliva, infatti, l’articolo 96 che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri fossero posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, con conseguente giudizio della Corte costituzionale in composizione integrata (articoli 134 e 135).
L’unica applicazione concreta dell’istituto, con riferimento ai reati ministeriali, fu il noto caso Lockheed, attorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, riguardante una vicenda di tangenti. I contraccolpi che esso ebbe, in particolare sull’ordinario funzionamento della Corte costituzionale, e i limiti che il meccanismo evidenziò furono all’origine della revisione operata con la legge costituzionale n. 1 del 1989, poi attuata dalla legge n. 219 di quello stesso anno e da specifici regolamenti di Camera e Senato per i procedimenti d’accusa.
E’, dunque, a quella riforma che si deve l’attuale articolo 96 della Costituzione, ai sensi del quale il Presidente del Consiglio e i ministri (anche se cessati dalla carica) sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato o della Camera.
Le fonti in materia descrivono un procedimento articolato e complesso: rapporti, referti e denunzie arrivano al procuratore della Repubblica territorialmente competente; questi li trasmette a uno speciale collegio (il cosiddetto Tribunale dei ministri), il quale, al termine delle indagini, può disporre l’archiviazione o trasmettere gli atti alla procura perché li rimetta al Presidente della Camera competente; questi, se si dà il caso, li invia alla giunta per le autorizzazioni a procedere, che riferirà per iscritto all’assemblea, dopo un’istruttoria; l’assemblea, infine, si riunirà entro 60 giorni e potrà, “a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”.
Anche sulla base di tale complessa articolazione del procedimento, un primo dato che emerge è che siamo di fronte a un’ipotesi molto delicata, che richiede ponderazioni attente e soprattutto un’assunzione di responsabilità molto forte alle Camere che intendano eventualmente negare l’autorizzazione, dal momento che la motivazione – insindacabile – non può che riferirsi a una vera e propria ragion di Stato, capace di prevalere su ogni altra considerazione.
Nel caso di cronaca attualmente all’attenzione, in merito alla nave Diciotti, che sia il ministro (e vicepresidente) Salvini ad affermare, come riportano gli organi di stampa, che “Dopo aver riflettuto a lungo su tutta la vicenda, ritengo che l’autorizzazione a procedere debba essere negata”, da un lato certamente si spiega, trattandosi dell’inquisito, ma dall’altro sembra sottovalutare il fatto che questa è esattamente la valutazione che la legge chiede all’assemblea parlamentare, in esito a un rigoroso percorso, e assumendosene la relativa responsabilità.
Come è ovvio e a tutti chiaro, l’affermazione del diretto interessato va valutata anche, e forse soprattutto, sotto il profilo politico. E non a caso molti commentatori si sono concentrati sul significato che essa ha in particolare nei confronti degli alleati di Governo e sulle possibili ripercussioni di un voto che avrebbe inevitabilmente riflessi in ordine alla stabilità dell’Esecutivo. Anche perché, nessuno lo nega, si tratta di un reato addebitato a un ministro che, come forse mai nel passato, sembra innestarsi in profondità nelle funzioni di Governo e nella politica generale di cui l’attuale Esecutivo si è fatto portatore, con la centralità data ai problemi dell’immigrazione.
Si comprende, al riguardo, come l’interessato aggiunga, nelle dichiarazioni, che non c’entra la sua persona, a voler sottolineare la responsabilità collegiale per le scelte assunte dall’Esecutivo. Da questo punto di vista, peraltro, la vicenda potrebbe anche essere una cartina di tornasole sul reale ruolo del Presidente del Consiglio e sui suoi rapporti con i vice e più in generale con l’intero Governo, ciò che richiama i dubbi iniziali sulla funzione di direzione della sua politica generale.
Ma anche dal punto di vista dei possibili impatti politici della vicenda, si può osservare che la legge costituzionale del 1989 non è priva di indicazioni, sia pure indirette, che meritano attenzione.
Da un lato, l’articolo 4 consente, in caso di condanna, che per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni da parte del Presidente del Consiglio o dei ministri la pena sia aumentata fino a un terzo in presenza di circostanze che rivelino l’eccezionale gravità del reato. E questo in rapporto alla particolare carica pubblica ricoperta.
Dall’altro, l’articolo 10, nel disciplinare le misure restrittive a carico degli inquisiti, dopo aver stabilito che non si applica il secondo comma dell’articolo 68 della Costituzione (relativo all’immunità parlamentare), prevede anche che nei loro confronti non possa essere disposta l’applicazione provvisoria di pene accessorie che comportino la sospensione degli stessi dal loro ufficio. A evitare pericolosi cortocircuiti tra l’attività di accertamento di reati, che di questo in primo luogo si tratta, e i riflessi sull’attività di Governo, prima del preciso accertamento delle responsabilità, e sempre che le Camere vi consentano.