“La Costituzione tutela di diritti dei migranti”, anzi “è uno scudo per i più deboli, che siano italiani o stranieri”. L’affermazione, ieri, aveva massima visibilità su Repubblica, nei titoli a un’intervista rilasciata dal presidente in carica della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi. Un conoscitore profondo e autorevole di legalità repubblicana: a un lungo cursus di magistrato ordinario (culminato in Corte di Cassazione), Lattanzi ha affiancato quello di giurista universitario e di incarichi importanti al ministero della Giustizia, dove ha cooperato fra l’altro alla redazione del nuovo codice di procedura penale. In ogni caso, le sue affermazioni – politicamente condivisibili o meno, come sempre in democrazia – hanno sicuramente rappresentato un contributo serio e rilevante a un acceso confronto civile in corso: quello che investe – in queste ore – il difficile sbarco dei migranti dalla Sea Watch e l’iter dell’impeachment del vicepremier Matteo Salvini, rinviato al giudizio parlamentare dal Tribunale dei ministri di Catania dopo le indagini aperte della Procura di Catania sul caso Diciotti. Quindi: un caso politico interno e internazionale di primo livello; e un ennesimo caso di confronto duro fra poteri dello Stato, come ha segnalato un politologo liberale come Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, con forti critiche all’apparente tentativo della magistratura di “correggere” per via giudiziaria gli “errori” – veri o presunti – di un esecutivo democraticamente in carica.
Proprio perché provenienti da fonte di massima autorevolezza istituzionale, le prese di posizione di Lattanzi non hanno mancato di suscitare qualche interrogativo. Gli stessi interrogativi, d’altronde, aveva sollevato il suo predecessore Gustavo Zagrebelsky, che alcune settimane fa dalle stesse colonne di Repubblica aveva invitato gli italiani alla “disobbedienza civile” verso il Governo in carica. Sarebbero d’altronde i costituzionalisti – non certi i giornalisti – i primi e forse i soli chiamati a qualche commento fondato sull’“esternazione” individuale e giornalistica – in medias res – del presidente della Consulta.
Sul merito della questione è lo stesso Lattanzi a lanciare una sfida dottrinale alta: citando il “principio di solidarietà” (articolo 2 Cost.) e quello di tutela della dignità “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3). Lattanzi omette di sottolineare che quest’ultimo principio è riferito ai “cittadini” della Repubblica (nell’articolo 2 si parla peraltro di “diritti inviolabili dell’uomo”), ma il punto non è questo. Non c’è dubbio che – se condotta a dovere in tutte le sedi proprie – ne maturerebbe una grande discussione giuridica, politica, culturale e civile. Che naturalmente non potrebbe escludere tutti i principi costituzionali, a cominciare dal primo: “La sovranità” – nella Repubblica italiana – “appartiene al popolo”, che – certamente – “la esercita nei limiti e nelle forme previste dalla Costituzione”.
Dal 1955, fra le “forme” di funzionamento della democrazia opera la Corte Costituzionale. Le sue funzioni sono indicate dall’articolo 134 della Carta:
“La Corte costituzionale giudica: – sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; – sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; – sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione”.
Un giornalista potrebbe sintetizzare: la Consulta è un’istituzione indipendente chiamata a interpretare in via vincolante la Costituzione quando un soggetto riconosciuto come tale nella Repubblica la interpella ritenendo che una norma di legge violi la Costituzione. Quindi: la Corte si esprime in quanto tale su questo e opera attraverso procedure fissate dalla Costituzione, dalla legge, da una prassi consolidata.
La Corte garantisce la Repubblica e la sua Costituzione; non fa politica.
La Corte si pronuncia con sentenze formali condivise fra 15 giudici scelti dal Presidente della Repubblica, dalle Camere e dalle supreme magistrature sulla base di indiscutibili meriti scientifici e per cursus nella vita repubblicana.
La Corte non è il suo presidente, il quale non è legittimato – certamente non dalla Costituzione in vigore sotto l’alta tutela della Corte – a interpretare la Carta a titolo personale, “in corsa” sulla stampa.
Questo, naturalmente, resta il punto di vista di un giornalista. Pronto a essere contraddetto dai costituzionalisti.