L’accordo sull’autonomia differenziata non c’è: sono troppe le questioni aperte tra Lombardia, Veneto e ministeri sulle funzioni da trasferire. I nodi da sciogliere riguardano le concessioni delle infrastrutture, le bonifiche ambientali, ticket e tariffe sanitari, ammortizzatori sociali, Sovrintendenze. Secondo quanto anticipato ieri dal Sole 24 Ore, il dossier finirà sul tavolo di Palazzo Chigi, che imporrà un rinvio e una mediazione politica. Per Gianmario Demuro, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Cagliari, occorre prima vedere cosa ci sarà scritto nelle intese. Nel frattempo, chi teme una “secessione dei ricchi” farebbe meglio a seguire le orme di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
L’autonomia differenziata, per la sua complessità, è un tema sfuggente. Di che cosa parliamo?
Dell’attuazione dei referendum consultivi del 2017, i cui quesiti sono stati a suo tempo giudicati ammissibili dalla Corte costituzionale e dunque erano corretti.
E poi?
Parliamo della possibilità, prevista dalla nostra Costituzione all’art. 116, di differenziare le Regioni, di far valere cioè il principio che pur nell’unità della Repubblica le Regioni italiane sono tutte diverse. Su questa base l’art. 116 ha previsto che ogni Regione, partendo da un accordo tra Stato e singola Regione, possa chiedere una serie di competenze.
Esiste un rischio di disgregazione?
Il tema della contrapposizione tra uniformità e differenziazione attraversa tutta la storia della Repubblica. La nostra è storia di una unità sofferta. Ma l’unità è più solida se le differenze sono rispettate: l’art. 5 Cost. riconosce tutto questo quando dice che non c’è solo l’unità della Repubblica, ma anche le autonomie locali con le rispettive esigenze. Il vero regionalismo è il pluralismo di tali autonomie, che a loro volta sono differenziate perché espressione di territori diversi.
Qual è il giusto equilibrio tra l’autonomia delle Regioni e l’unità dello Stato?
Quello che permette allo Stato di garantire pari opportunità, ad esempio nella continuità territoriale. Il cittadino che parte da Cagliari o da Olbia deve potersi muovere a dei costi molto vicini se non identici a quelli che gravano su un cittadino che parte da Varese. L’autonomia serve a garantire una migliore attuazione a livello territoriale dei compiti che spettano alla Repubblica: se il Comune o la Città metropolitana o la Regione riescono a farlo meglio dell’apparato centrale, devono essere messi in condizione di poterlo fare.
L’autonomia differenziata, ancor prima di vedere la luce, è oggetti di forti critiche soprattutto al Sud. Alla modifica delle competenze corrisponde una modifica nella gestione delle risorse e si teme una “secessione dei ricchi”.
L’unità italiana è l’unità difficile di un paese molto articolato. Le Regioni del Sud, per migliorare le loro capacità, dovrebbero chiedere più autonomia. Non è una battuta. Queste cose le diceva anche Gaetano Salvemini.
In altri parole, lei sta dicendo a Campania, Puglia e Calabria di fare quello che fanno Lombardia e Veneto.
Io dico che i cittadini, nel momento in cui possono giudicare direttamente il livello di gestione del servizio, hanno una maggiore capacità di verificare la bontà di un’amministrazione e perciò di promuoverla o di bocciarla. Le autonomie, se fatte bene, sono un modo per garantire il controllo democratico. Se ne accorse Tocqueville quando conobbe il federalismo americano. Però non siamo illuministi ingenui: sappiamo bene che c’è una bella differenza tra l’amministrazione della Provincia di Bolzano e quella di tante altre realtà italiane, al Sud come anche al Centro.
Ma allora da che cosa dipende l’obiezione di chi teme una divisione tra italiani di serie A e di serie B?
Il punto è che la garanzia dell’autonomia e la garanzia dell’eguaglianza non vengono dal controllo centrale. E’ questo l’equivoco: se il controllore è al centro, allora l’eguaglianza è garantita. Niente affatto. Da autonomista convinto non ho mai accettato questa idea. Non l’accettava nemmeno Emilio Lussu, padre costituente, che durante i lavori difese la causa del federalismo, senza però riuscire a farlo passare perché troppo in anticipo sui tempi.
Resta il tema delle risorse. Quelle che le Regioni proponenti vorrebbero trattenere.
Ecco, qui mi fermo perché è meglio sapere esattamente cosa ci sarà scritto nelle intese. E al momento non lo sappiamo. Sappiamo però che quelle intese si possono fare perché lo dice la Costituzione. In ogni caso, il tema cruciale è il principio di solidarietà previsto dall’art. 119 Cost.
Dove sta il punto?
Siamo davanti a una norma costituzionale non attuata, perché la legislazione sul federalismo fiscale del 2009 risulta inapplicata. Il 2009 è anche l’anno in cui la crisi economica è esplosa in tutta Europa. In molti paesi ne è conseguito un accentramento della spesa: un processo opposto al federalismo.
Da dove si riparte?
Il dilemma è quale criterio adottare: trasferiamo alle Regioni la quota di risorse necessaria, determinata in base alla spesa storica, per la gestione della funzione trasferita, oppure adottiamo il costo standard?
La sua soluzione qual è?
Occorre procedere per tappe. O meglio, per “prove ed errori”. Attualmente la finanza pubblica è interamente accentrata e interamente derivata: tutte le entrate sono in capo allo Stato e le spese in capo ai vari livelli territoriali, dai Comuni allo Stato. Esistono imposte regionali e locali, però la grande massa delle entrate va allo Stato che poi redistribuisce dal centro alla periferia. Si potrebbe utilizzare il criterio della spesa storica solo in una prima fase, quella in cui occorre calcolare quanto lo Stato spende per l’esercizio di alcune funzioni, per poi applicare a regime il criterio del costo standard, cioè il costo ottimale in rapporto ad una certa prestazione o servizio erogato.
Chi lo definisce?
Va definito sulla base di un coordinamento da farsi tra Stato e Regione. Siamo molto indietro, perché il lavoro avviato sul federalismo fiscale si è completamente bloccato. Manca un organo parlamentare che rappresenti le Regioni: non lo è la Conferenza Stato-Regioni, che è formata solamente dai capi degli esecutivi. E’ riuscita dopo un lunghissimo lavoro a definire i Lea (Livelli essenziali di assistenza, ndr) in sanità, ma ci sono voluti dieci anni. Sui costi standard ci vogliono fondazioni, università, centri studi che lavorino seriamente, per gradi, provando e riprovando. Come in tutti i paesi seri, occorrerà prevedere dei meccanismi di monitoraggio.
Nonostante tutto sembra ottimista.
Ripeto, voglio prima vedere le intese.
E’ preoccupato dal fatto che l’autonomia differenziata sia nelle mani di un governo costituito da due forze di cui una interpreta prevalentemente il Nord e l’altra il Sud?
L’unica cosa di cui sono preoccupato è che la perdurante crisi economica in Italia non ci faccia mai entrare in una prospettiva di lotta alla diseguaglianza basata su una maggiore responsabilità delle autonomie. Lussu diceva che il cittadino non ha né letto né tetto nello Stato. Ed era un uomo molto di sinistra.
(Federico Ferraù)