Avere una buona parte di ragione e non poterla sostenere, né testimoniare: è stato un boccone davvero amaro quello che Giuseppe Conte, presidente del Consiglio italiano, ha dovuto trangugiare ieri a Strasburgo, ancor più amaro per l’immeritato accostamento – venuto subito alle mente di tutti – allo scandalo che sedici anni fa causò Silvio Berlusconi definendo, dal pulpito dell’aula parlamentare, il futuro presidente dell’assemblea Schulz come ideale interprete per il ruolo del kapò in un film sui campi di concentramento nazisti. Allora, rispondendo con un’ironia greve e autolesionista al pur volgare e ingiurioso attacco del tedesco, Berlusconi si espose al ridicolo. Ieri Conte ha tenuto un discorso serio e costruttivamente critico contro le gravissime incongruenze della costruzione europea come la viviamo oggi – dalle disuguaglianze crescenti alle asimmetrie giurisdizionali, dagli egoismi nazionali agli effetti prociclici dell’austerity, che ha nuociuto anziché giovare -, ma si è beccato una valanga di critiche motivate unicamente dall’isolamento istituzionale in cui una casta di europolitici al capolinea, mediamente tutti debolissimi elettoralmente nei loro paesi, lo ha sadicamente incastrato.



Insomma, Conte ha detto cose più giuste che sbagliate ed è stato attaccato da tutti. In sintesi, e per la cronaca: il capogruppo dei Popolari Manfred Weber ha chiesto a Conte di riformare l’economia “per creare posti di lavoro” e di ridurre il debito “per garantire la stabilità dell’euro”, affermando che la situazione italiana “è un problema per l’Europa”. Il capogruppo socialista Udo Bullmann si è detto “profondamente preoccupato per l’isolamento economico e politico dell’Italia”. Il liberale Guy Verhofstadt, ex presidente belga, gli ha chiesto volgarmente: “Mi domando per quanto tempo ancora lei sarà il burattino mosso da Matteo Salvini e da Luigi Di Maio”. Questo è stato il tenore del dibattito in un’assemblea che dovrebbe rappresentare il meglio della classe dirigente politica di 28 Stati europei.



D’altra parte è chiaro che Conte ormai rappresenta solo se stesso. Dopo aver parlato con pacatezza e senza cadute di stile – anche se con argomenti critici – ha reagito seccamente almeno all’epiteto peggiore: “Non sono un burattino, forse lo è chi risponde a lobby e comitati d’affari”, ma il “fattore campo” era tutto contro di lui, e tale è rimasto. Mentre in Francia i “gilet gialli” sono gruppi rivoltosi che il sistema tiene ai margini della politica, l’Italia giallo-verde è vista nell’assemblea di Strasburgo di oggi come un Paese in balìa di ducetti urlatori senza esperienza di governo e senza un minimo di diplomazia nei modi e nei termini, ma soprattutto senza alcuna delle carte in regola che occorrerebbe avere per far la morale agli altri.



Il declino in cui è precipitata la casta che ieri ha isolato Conte si misurerà col voto di maggio, ma intanto l’Italia è sola, esposta alla pressione dei mercati, quei mercati finanziari internazionali che non rispondono certo a Weber, né a Verhofstadt, ma cercano affannosamente ogni giorno occasioni di attacco speculativo ai titoli degli Stati economicamente più deboli – primo fra tutti l’Italia – e sono del tutto indifferenti ai torti e alle ragioni tra cui si dibatte oggi l’Unione europea.

Con 2.300 miliardi di debito pubblico, con oltre 40 miliardi al mese di titoli di stato da emettere e collocare in buona parte oltre confine, con un’economia che tutti gli istituti di ricerca più seri vedono in crescita quest’anno di appena lo 0,2-0,3%, contro l’1% che la Legge di bilancio appena approvata si è prefissa di raggiungere per confermare la sostenibilità della manovra finanziaria, ecco: qualsiasi predica arrivi da chi rappresenta un Paese in queste condizioni come l’Italia, è esposta eternamente alla domanda critica: “Da quale pulpito?”

È evidente che le ragioni profonde di questo stato di cose di tutti sono fuorché del povero Conte. Se tra il 2011 e il 2013 le nostre banche sono state tenute al palo delle ricapitalizzazioni con soldi pubblici fatte ad esempio dalla Germania per le sue, in cui Berlino ha pompato oltre 600 miliardi di euro di denaro statale, la responsabilità va al governo Monti e alla sua linea anti-italiana. Se la ripresa europea del 2014-2015 è stata sperperata sull’altare di un referendum insensato la colpa è di chi lo volle, nel tentativo di costruire un monumento al proprio ego privo di senso: a Matteo Renzi.

Ma oggi, su queste macerie fatte da altri, il Governo giallo-verde pretende di costruire una “via italiana” al riscatto per la quale mancano sia i presupposti economici che le relazioni internazionali a supporto, a cominciare da quei Trump e quei Putin che, inopportunamente invocati a garanti e padrini sia da Di Maio che da Salvini – i due capi partito al potere -, restano nei fatti sordi e distanti da un Governo sgangherato, unito con lo sputo, inconciliabile nelle sue due distantissime anime, opportunisticamente protese a rendere i conti nelle urne europee per poi forse rimescolare le carte, mentre l’Azienda Paese arranca.