La doppia tensione dello scontro con l’Unione Europea sulla Tav, sul Venezuela e sulla manovra e delle risse con l’alleato leghista si sono abbattute a Strasburgo come un maglio sulla fragile figura del presidente del Consiglio Giuseppe Conte ed  hanno fatto da catalizzatore per gli attacchi anche esagerati e figli della sapiente regia dei tre gruppi principali del parlamento, Popolari, Socialisti e Liberali che già si preparano a difendere il fortino Europa dalle tempeste annunciate di maggio.



Debole anche il sostegno dei gruppi parlamentari della maggioranza italiana, con gli eurodeputati pentastellati incapaci di sostenere il capo dell’esecutivo, sottoposto ad una significativa sollecitazione, non soltanto perché non sufficientemente attrezzati ma anche perché segnati dalle divisioni che oggi dominano la loro stessa vita politica interna.



Non penso soltanto allo spiccato dualismo tra il vicepremier Di Maio e il presidente della Camera Fico che ha caratterizzato i primi mesi della legislatura dopo la formazione del governo, ma anche alle sempre più frequenti incursioni degli altri maggiorenti del Movimento: Di Battista in primis e, dopo le elezioni abruzzesi, lo stesso Grillo.

Le tensioni in seno al Movimento 5 Stelle raggiungono una prima soglia di rilievo lo scorso agosto, a seguito della cosiddetta campagna di mare promossa dal vicepremier Salvini. La vicenda della nave Diciotti con le
dichiarazioni critiche del presidente Fico, che su twitter scrisse: i profughi “devono poter sbarcare”, rappresenta la prima importante spaccatura nella compagine grillina. Rimbrottato dal sottosegretario Buffagni, uomo di Giggino, il presidente della Camera incassa in tale occasione il sostegno della ministra Lezzi, del presidente della Commissione Affari costituzionali Brescia e dell’ex capitano di fregata De Falco poi epurato con Fico silente.



Il sorpasso leghista nei sondaggi di settembre mette in allarme i vertici M5s, già in difficoltà per la retromarcia sulla chiusura dello stabilimento Ilva di Taranto, che tentano quindi di serrare le fila accelerando sul reddito di cittadinanza e votando a favore del provvedimento ai danni di Orbán al parlamento europeo. Un cambio di passo reso evidente dall’intervento televisivo di Di Battista dal Guatemala, dove a esser presa di mira era la Lega per i 49 milioni di euro truffati. A dispetto delle dispute con la Lega sulla ripartizione delle risorse e l’emersione di un’area interna sensibile ai richiami quirinalizi ad abbassare i toni dello scontro con l’Ue, il varo della legge di bilancio suscita soltanto un’importante tensione nelle file del M5s: il tema della “pace fiscale” scuote in profondità il Movimento, prostrato in quei giorni dalla retromarcia sulla Tap.
La fine di ottobre segna quindi uno spartiacque nella dinamica interna dei pentastellati: quanti, in diverso ordine e grado, sono insoddisfatti del rendimento governativo del Movimento rompono gli indugi. La sfida alla leadership di Di Maio, cui si rimprovera una sostanziale arrendevolezza politica nei confronti del partner leghista, viene lanciata sul Decreto sicurezza. Improvvisamente i punti di attrito politico nel Governo – in materia di legittima difesa, prescrizione, affido condiviso, termovalorizzatori, così come sul condono per Ischia o sulle ipotesi di salvataggio delle banche o di revisione delle tariffe RC auto – diventano terreno di un latente scontro interno.

Una frastagliata area del dissenso, spesso moderato e talvolta profondo, viene quindi a delinearsi nel Movimento 5 Stelle. Un tentativo di catalizzarla viene quindi operato dal presidente della Camera Fico, impegnato coi suoi uomini in un ambizioso progetto egemonico interno finalizzato a condizionare il corso politico del Movimento e del Governo. Di Battista vola in soccorso di Di Maio e gli pone precise condizioni spingendolo su posizioni estreme e togliendogli quella allure dorotea che lo aveva contraddistinto.

Abbraccio a Maduro e ai gilet gialli, scontro con la Francia di Macron sono gli ingredienti di una ricetta a 5 Stelle che sembra non funzionare più. Perché quando sei al governo i tuoi elettori chiedono fatti e moderazione, dicono i seguaci di Di Maio. Perché senza furore giacobino si perde la purezza iniziale che ha dato il successo al Movimento, replicano gli irriducibili.
Conte ha provato a portare la croce ed a fare il mediatore. Nel cupo pomeriggio di Strasburgo si è ritrovato solo. Crocevia delle contraddizioni. Forse prototipo di una terza corrente che vorrebbe fare un passo avanti anche nel partito, non solo nel governo. Rifiutandogli il ruolo di burattino.