L’autonomia rafforzata, o differenziata, chiesta da tre Regioni – Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto – oggi dovrebbe arrivare sul tavolo del Consiglio di ministri. Rispetto però alla scadenza annunciata da Matteo Salvini a dicembre, e cioè che il 15 febbraio il governo avrebbe presentato il relativo Ddl, è molto probabile che i tempi si allunghino, visti i tanti nodi ancora da sciogliere e le divergenze con il M5s. Il dossier ha creato malumori non solo tra gli alleati di governo, ma anche nel Paese, soprattutto al Sud, che teme una sorta di “secessione dei ricchi”. E’ possibile, allora, cogliere questo rinvio per provare a calibrare meglio la questione?
“Con questo processo di regionalismo accentuato e privo di un disegno unitario – risponde Amedeo Lepore, professore di Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e membro del comitato di presidenza della Svimez – rischiamo di non avere né uno Stato forte, come sarebbe necessario, né strutture intermedie dello Stato efficienti. Anziché insistere sulla frantumazione e contrapposizione tra Nord e Sud del Paese, la discussione, se prevalesse una consapevolezza dei problemi e delle convenienze reciproche, potrebbe servire a individuare con coraggio gli strumenti utili, a Costituzione invariata, per mettere a punto nuovi rapporti tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, in uno spirito di collaborazione solidale e di competizione virtuosa tra territori, all’interno sempre di un disegno nazionale unitario”.



Partiamo intanto dalle preoccupazioni. Che cosa c’è da temere dall’autonomia differenziata?

Nelle bozze di intesa due regioni su tre chiedono che venga loro assegnato un numero notevole di poteri e competenze, visto che parliamo di 23 materie. E l’Emilia-Romagna è l’unica ad affermare che “il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia in nessun caso si può porre in contrasto o può mettere in discussione il carattere unitario e indivisibile della Repubblica e far venire meno il carattere solidale che vincola le istituzioni come enti costitutivi del Paese”. E’ un’affermazione importante, che andrebbe però calibrata anche in rapporto alle eccessive richieste di autonomia, altrimenti si rischia di far prevalere un eccesso di frammentazione e di rincorsa all’attribuzione di poteri. Ma il tema centrale, a mio avviso, è quello del residuo fiscale.



Perché?

Il residuo fiscale dovrebbe essere l’elemento che mette in rapporto le entrate fiscali raccolte a livello nazionale e le risorse che vengono spese sui territori. A tal proposito, però, si deve tenere conto della sua genesi, altrimenti viene interpretato non come un elemento legato agli individui e alla loro tassazione, ma come un diritto territoriale.

La distinzione è fondamentale?

Il premio Nobel James Buchanan, che nel 1950 coniò il termine nel suo saggio su federalismo ed equità fiscale, sostenne infatti l’esatto contrario di quello che propongono i fautori di questo intenso decentramento di poteri e di risorse.



Che cosa sosteneva Buchanan?

Metteva al primo punto la necessità che ciascun individuo avesse la garanzia che dovunque risiedesse nella nazione ricevesse lo stesso trattamento fiscale. E quindi i cosiddetti residui fiscali si generano in quei territori dove si concentrano i cittadini con redditi relativamente più alti, come in alcune regioni italiane. Ciò che conta è che gli stessi cittadini vengano trattati nello stesso modo a livello nazionale, sia in termini di prelievo che di servizi erogati e di spesa. Buchanan, dunque, aveva scritto l’articolo proprio per trovare una giustificazione non solo economica o fiscale, ma anche etica, ai trasferimenti di risorse dagli Stati più ricchi a quelli meno ricchi degli Stati Uniti. Il residuo fiscale, dunque, inteso come il saldo tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che ne riceve sotto forma di spesa pubblica, va utilizzato per perequare, per dare alle regioni più deboli l’opportunità di mettersi allo stesso livello delle più forti.

In Italia non succede così?

Il residuo fiscale ha avuto una diversa accezione, perché negli ultimi decenni, a fronte degli sprechi di risorse pubbliche nel Mezzogiorno dovuti all’adozione di politiche di sviluppo localistiche, che hanno privilegiato gli interventi a pioggia di carattere assistenziale, si è registrata una reazione che ha portato a parlare di una “questione settentrionale”, caratterizzata da una rivendicazione di maggiore attenzione a chi metteva al centro criteri di efficienza e di produttività. Premesso che la parte migliore del meridionalismo si è mossa contro lo spreco delle risorse pubbliche e l’inefficienza degli apparati pubblici, nel tentativo di recuperare questo divario, la questione settentrionale ha prodotto un’interpretazione forzata del concetto coniato da Buchanan, sostenendo, in pratica, che esisteva un residuo fiscale per le regioni del Nord tra i 50 e gli 80 miliardi di euro rispetto alle regioni meridionali, che avevano invece un saldo negativo.

Questo spiega la crescente contrapposizione tra Nord e Sud?

Secondo me, sarebbe un errore continuare a discutere, su un terreno che è molto complesso e difficile, in termini di contrapposizione Nord-Sud. Anzi, sono convinto che se venisse attuata questa riforma sull’autonomia rafforzata, si creerebbero problemi anche al Nord. Penso, al contrario, che vi siano interessi comuni e convenienze comuni perché la questione sia affrontata nei suoi giusti termini.

Quali sarebbero?

Il sindaco di Milano, quando evoca i rischi del neocentralismo regionale, ha ragione. Se noi apriamo il vaso di Pandora della rincorsa ai poteri e alle risorse, non facciamo un servizio utile all’Italia, che mai come in questo momento avrebbe bisogno di coesione e di forza a livello internazionale. Ma non c’è solo il rischio del centralismo regionale.

Quali altri rischi intravede?

Sarebbe un errore fare accordi one-to-one, cioè tra lo Stato e singole regioni. Addirittura, nel testo dello schema di intesa della Regione Veneto, si prevede che ci sia una commissione paritetica Stato-Veneto che ne regoli i rapporti, come se il Veneto fosse un altro Stato. E’ un errore basilare. Fermo restando che non si può pensare in nessun caso alla riproposizione di forme di centralismo, dobbiamo invece partire da una riconsiderazione dell’esperienza regionale.

Per valutare cosa?

Come quel disegno, avviato nel 1970, non abbia raggiunto risultati pari alle aspettative e in qualche caso ci siano stati anche dei fallimenti. Va cioè riconsiderato il ruolo delle regioni nell’ambito di un Paese che vuole e deve essere coeso per vincere le sfide internazionali e per non essere relegato in un angolo.

Quali passi si dovrebbero compiere?

Bisogna unificare profondamente le esigenze di una rafforzata presenza nazionale con una forte presenza dei livelli territoriali, distinguendo bene quali debbano essere i compiti dello Stato nazionale e delle regioni, che sostanzialmente dovrebbero tornare a essere organi di programmazione e non di gestione. Una strada imboccata, purtroppo, negli anni 70 e che ha portato tanti guasti.

Bisognerebbe eliminare le materie concorrenti?

La riforma dell’articolo 116 della Costituzione non ha contribuito a dare maggiore chiarezza nei rapporti tra Stato e Regioni, anzi ha creato maggiori difficoltà e più confusione. Bisogna rivedere queste materie, perché hanno determinato un elevato livello di contenzioso e un blocco delle attività in molti campi, a causa anche della competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni.

E poi?

La legge del 2009 sul federalismo fiscale, che comunque non mi piace, prevedeva Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e costi standard. Siccome entrambi non sono stati mai definiti, questo sarebbe il un altro passo fondamentale, non solo per le regioni che chiedono l’autonomia differenziata, ma per tutti. E non lo dico per bloccare un processo in corso, ma per rendere possibile una competizione virtuosa giocata sull’efficienza di tutte le regioni. Insomma, si stabiliscano dei parametri che valgono per tutti.

Per fissare i Livelli essenziali di assistenza ci sono voluti dieci anni. Lep e costi standard sono decisivi, ma avremo la forza, e la pazienza, di individuarli?

Non si deve bloccare tutto nell’attesa di Lep e costi standard. E anziché metterci 10 anni, si può fare in modo che si raggiungano presto. Nell’articolo 5 della bozza di intesa del Veneto si parla di fabbisogni standard da determinare entro un anno dall’entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa. Se si può fare per il Veneto, è possibile non aspettare tempi biblici per tutto il Paese.

Nel frattempo si blocca tutto?

Nel frattempo si possono fare sperimentazioni condivise tra Stato centrale e Regioni, superando la giungla delle materie oggetto di legislazione concorrente, ma non attraverso accordi bilaterali tra Stato e singole Regioni. E’ un modo sbagliato di procedere, perché potrebbe determinare profonde difformità. Su altri temi, come la scuola o la sanità, ritengo che sia giusto che lo Stato mantenga le sue prerogative.

Sul tavolo resta anche il nodo della perequazione…

La perequazione ha l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e impediscono lo sviluppo della persona umana e la partecipazione all’organizzazione economica e sociale del Paese. Ecco perché la Costituzione prevede l’istituzione di un fondo perequativo, che dovrebbe essere ripartito senza vincoli di destinazione tra i territori con minore capacità fiscale per abitante. Questo è un compito che spetta allo Stato. E’ un tema essenziale per ragionare, non per rivendicare qualcosa.

In che direzione?

In una direzione utile per evitare sia un’eccessiva centralizzazione sia una dissennata attribuzione a pioggia di poteri e di risorse alle regioni, che come si è dimostrato tra la fine degli anni 80 e negli anni 90 non favorisce la responsabilizzazione, perché determina invece una frantumazione, uno spreco di risorse e una torsione della spesa in termini assistenziali. C’è un precedente recente, con alcuni limiti, ma c’è.

Quale?

I Patti per lo sviluppo del Mezzogiorno erano un tentativo, forse tardivo, di mettere insieme le esigenze nazionali e il coordinamento di politiche territoriali con il protagonismo delle regioni e delle città metropolitane. Si potrebbe prendere spunto da questo e mostrando maggiore coraggio si potrebbe rilanciare il modello, cercando di stabilire anche accordi sovra-regionali per gestire servizi e materie complesse. Fare le macro-regioni, senza dover modificare le norme costituzionali, è possibile.

Su che materie?

Grandi infrastrutture, gestione dell’acqua, infrastrutture di rete, trasporti, logistica, corridoi euro-mediterranei: tutte materie che spesso hanno una scala di intervento sovra-regionale.

C’è invece chi dice che le regioni del Sud dovrebbero seguire l’esempio di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. E’ d’accordo?

Non sono assolutamente d’accordo. L’emulazione scatenerebbe un meccanismo nel quale ciascuna regione cercherebbe uno spazio al sole. Dobbiamo invece fermarci e approfondire la questione, aprendo un confronto con tutte le regioni, nell’interesse del Sud e del Nord. La disgregazione ci porterebbe, da un lato, a peggiorare la situazione economica, e ciò non penso che consentirebbe alle stesse Regioni del Nord di raggiungere migliori risultati. Dall’altro, indebolirebbe il nostro paese in un momento cruciale sul piano internazionale. Non è solo la crisi che impone un rafforzamento dello Stato, è la possibilità stessa di stare in questa globalizzazione-arcipelago in cui emergono grandi potenze – Usa, Cina, Russia, India, Paesi asiatici e magari un domani anche Paesi africani – rispetto alla quale, se non riprendiamo a ragionare di Europa e di Mediterraneo in termini diversi e su scala dimensionale più ampia, siamo destinati a scomparire. L’Italia rischia di rimanere l’ultima ruota del carro dell’Europa e l’Europa rischia di rimanere un continente residuale.

Quali leve bisognerebbe muovere?

La collaborazione e la competizione.

Partiamo dalla collaborazione.

Non si tratta semplicemente di stabilire un rapporto di solidarietà, che pure è fondamentale, perché dà coesione al Paese, ma di aiutare chi è più debole a crescere, nell’interesse generale, combattendo tutte le forme di spreco, di malaffare, di incapacità con forme di perequazione in cui la sussidiarietà orizzontale e verticale diventa lo strumento efficace.

E la competizione?

I più deboli devono essere messi nelle condizioni non solo di recuperare i loro gap, ma anche di poter correre. E’ una visione miope unire tutto il Sud contro il Nord, perché è probabile che alcune regioni del Sud vogliano addirittura competere con le regioni del Nord oppure collaborare attraverso accordi a geometria variabile, che possono consentire di fare un passo in avanti rispetto ai Patti per lo sviluppo. Bisogna cioè mettere in moto un meccanismo in cui ciascuno possa sentire la responsabilità della coesione e della solidarietà, ma anche il pungolo della competizione. Nella collaborazione-competizione tutti possono giocare un ruolo e come insegnano i Paesi emergenti potrebbero anche esserci delle sorprese: se alcuni Paesi arretrati sono diventati leader mondiali, è possibile che cambino le carte anche nel nostro Paese.

(Marco Biscella)