L’abolizione delle province fatta da Delrio nel 2014 è stata un pastrocchio. La lega vuole ripristinarle ma si rischia una “controriforma”

I fatti hanno dimostrato che l’abolizione delle Province firmata dal ministro Delrio nel 2014 è stata una prova generale del gialloverdismo delirante dei nostri tempi. Cioè una legge disastrosa che ha fatto malissimo una cosa giusta. Sarebbe stato giusto snellire l’organizzazione degli enti locali saltando direttamente dai Comuni alla Regione. Ma farlo come l’hanno fatto, questo snellimento, è stato un boomerang.



Oggi il nodo è arrivato al pettine. Le Province vanno ripristinate, ha deciso il governo Conte. Quindi è possibile che arrivi presto una controriforma. Se lo stellone italico non risorgerà brillante, c’è da scommettere che la controriforma sarà peggio della riforma sbagliata. Sta di fatto che dovrà mettere mano al problema di oggi, che cioè è rimasta da cinque anni ingestita tutta la problematica che Delrio finse di non vedere: chi avrebbe svolto le funzioni delle Province alle quali il nuovo ordinamento lasciava si e no i soldi per pagare gli stipendi del personale – numeroso – che non s’è riuscito a trasferire alle Regioni.



Secondo Il Sole 24 Ore, infatti, “tra il 2012 e il 2018 le entrate proprie delle amministrazioni provinciali si sono ridotte del 60%; i dipendenti sono diminuiti di 16mila unità (2.564 sono andati in pensione, 5.505 sono stati trasferiti presso i centri per l’impiego, 720 sono stati ricollocati presso ministeri o tribunali e altri 7.185 sono stati smistati direttamente dalle Regioni)”.

Buoni risultati? Mica tanto. La manutenzione delle scuole e delle strade non-Anas sono due dei principali filoni d’attività che le province gestivano e… torneranno a gestire perché Salvini ha appena annunciato lo sblocco di 250 milioni annui dal 2019 al 2033 per questo scopo. Anticipando che altre “restituzioni” arriveranno. Ma anche per riprendere la gestione di questi due filoni occorrono – oltre ai soldi – regole nuove.



Perché la verità è che davvero la riforma del 2014 sembra scritta da una banda di ubriachi. Le funzioni sottratte non sono state redistribuite. Quelle che sono state invece affidate alle Città metropolitane non sono state accompagnate dai soldi necessari per gestirle e peraltro le città metropolitane, individuando cervelloticamente il loro capo nella figura del sindaco della città di riferimento, ha preteso di cumulare funzioni in capo a personaggi – Sala a Milano, la Raggi a Roma e così via – che hanno agende sostanzialmente impenetrabili per quanto sono già piene di eventi.

Il presidente dell’Unione Province Italiane, Pascale, parla di “una situazione di straordinarietà al limite della costituzionalità. La priorità per le Province resta ancora l’emergenza finanziaria, non solo per assicurare la manutenzione ordinaria di strade provinciali e scuole superiori, ma perché servono investimenti strutturali su un patrimonio che deve essere modernizzato e reso più efficiente”.

Indietro tutta, dunque? Mica sicuro. Perché il ripristino delle Province, caro alla Lega, trova l’opposizione dei 5 Stelle. Uno dei tanti temi su cui i due partiti della coalizione di governo ragionano agli antipodi. Non il più grave, se lo si confronta con la vera bomba a orologeria, che è il voto sull’autorizzazione a procedere a carico di Salvini per la vicenda Diciotti o con la frattura sull’autonomia delle Regioni – la cosiddetta autonomia differenziata – che i 5 Stelle non hanno alcuna intenzione di concedere agli enti che la richiedono, cioè Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Ma comunque un ennesimo fronte di dissenso.