Sono molti gli analisti che vedono una linea di continuità fra il trattato dell’Eliseo del 1963 e quello di Aquisgrana del 22 gennaio di quest’anno. In questa prospettiva continuista, il recente trattato fungerebbe da completamento del primo, unendo definitivamente i destini di Francia e Germania. Aquisgrana dovrebbe sancire, in modo definitivo, l’amicizia fra le due nazioni più potenti dell’Europa continentale e al contempo rilanciare il processo di integrazione europea, che una volta rinsaldatosi attorno al core europeo, assicurerebbe una guida salda in grado di portare l’Unione europea fuori da quest’epoca di incertezza e populismi sempre più aggressivi. Una linea di continuità con il passato, che però esiste più nelle intenzioni che nella realtà.
Non può passare inosservato il fatto che due giganti della politica come Adenauer e De Gaulle si incontrarono nel pieno della Golden Age – in una fase, cioè, di sviluppo materiale senza eguali nella storia, in cui la politicizzazione dello scontro fra il blocco occidentale e quello sovietico, in realtà, fungeva da stabilizzatore dell’equilibrio mondiale -, mentre la fase attuale si caratterizza per una radicale incertezza, la finanziarizzazione dell’economia e per il mutamento dell’assetto geo-strategico.
La continuità con la fase precedente, è piuttosto da ritrovare nel tentativo delle due potenze regionali di ribadire un’autonomia rispetto al Patto Atlantico e all’egemonia anglo-americana. Nel 1963 la Francia cercava di rivalersi rispetto alla Nato, ponendo il suo veto sull’ingresso di Londra nella Comunità economica europea, che non le riconosceva del tutto il suo status di potenza nucleare, e al contempo rinsaldando – allora come oggi – il suo rapporto privilegiato con la Germania. Il trattato dell’Eliseo era una dimostrazione di forza, che contribuì a cementare l’equilibrio delle relazioni internazionali, i due partner guardavano contemporaneamente a Est e a Ovest e sapientemente mettevano sul tavolo la loro influenza, bilanciando il conflitto fra i due blocchi.
Niente di più lontano da quello che è successo ad Aquisgrana, dove in uno scenario ancora più complesso, Francia e Germania provano a giocare su più tavoli. Probabilmente ha ragione chi reputa nel breve periodo l’impatto di Aquisgrana di relativa importanza, ma tuttavia non si può negare la sua grande valenza simbolica; il fatto che in qualche modo Francia e Germania mettano sul tavolo dei negoziati temi che potrebbero portare alla nascita di una super-nazione, è oggettivamente una novità il cui portato è di natura epocale. Il grande gioco dell’incertezza in cui è avvinta la nostra contemporaneità si arricchisce di un’ulteriore possibilità di cui è difficile prevedere gli esiti.
Al riguardo stupisce l’entusiasmo di chi ha celebrato il sorgere di un fronte internazionale contro i populismi, proiettando in modo strumentale sulla scena internazionale i temi e le polemiche della politica interna. A vacillare è tutta la grande narrazione sulla quale si è fondato il processo di integrazione dell’Unione europea, assestando un duro colpo al sogno della sua costruzione in senso democratico. Se con l’acuirsi della crisi si è assistito a una progressiva subordinazione della Commissione europea a favore di un incremento dell’importanza del Consiglio dei ministri dell’Unione, nella fase attuale addirittura si è accentuata la tendenza a ricorrere ad accordi bilaterali: in questo senso Aquisgrana è l’esito della crisi delle istituzioni europee, dell’emersione della dialettica fra Stati e del palesarsi della crudezza dei rapporti di forza fra nazioni.
L’entusiasmo degli europeisti nostrani, sempre attenti nel criticare la tendenza di Trump a ricorrere ad accordi bilaterali, non tiene conto di come l’accordo bilaterale fra Francia e Germania non rilanci il processo di unificazione, quanto, piuttosto, sia il risultato della crisi istituzionale e democratica dell’Unione, che per salvarsi si aggrappa all’egemonia delle due potenze. Egemonia che si manifesta non attraverso una direzione morale e intellettuale, ma con il tentativo di natura volontaristica di ridefinire a proprio vantaggio i mutevoli rapporti di forza fra nazioni, tipici di questa incerta transizione.
Se la tensione ideale che ispira Aquisgrana è solo il desiderio di trovare un argine ai populisti attraverso un assertorio desiderio autoaffermazione del core dell’Unione ai danni delle periferie, i tempi del trattato dell’Eliseo sembrano appartenere a un’altra epoca. Volendo si potrebbe assecondare l’ottimismo di chi vede nel trattato di Aquisgrana l’implicita accettazione di una complessità dei rapporti fra nazioni – prospettiva in cui il bilateralismo fungerebbe da antidoto a una geometrica e fredda costruzione di stampo burocratico – e che al contempo vede nell’amicizia fra Francia e Germania la definitiva sconfitta dei nazionalismi e del militarismo, ma non può sfuggire come all’interno del trattato, fra cooperazione in campo infrastrutturale, ecologico, istituzionale ed economico, a giocare un ruolo preminente sia il piano più strettamente militare e quindi politico.
La sfida agli Usa e alla Gran Bretagna ha una valenza epocale. L’Europa pacifica, che vive nei desideri di tanti illustri commentatori che confondono il ritorno della cruda dialettica fra Stati di stampo hegeliano con il pacifista e illuministico progetto kantiano, poggia in realtà su un tentativo di lanciare in grande un comparto militare industriale europeo. Come gli Usa dei monetaristi, anche l’Europa dell’austerity tacitamente ammette di aver bisogno di una forma di keynesismo militare, in grado di fare da volàno all’industrializzazione e che a guida franco-tedesca finirebbe inevitabilmente per assorbire l’industria militare delle altre nazioni europee.
Se uniamo questa sfida alla Nato e a Trump, a cui Francia e Germania si erano fortemente opposti alla richiesta di un maggior impegno nel sostenere le spese dell’Alleanza Atlantica, al proclama dei francesi di impegnarsi a favore della Germania per l’ottenimento di un seggio permanente all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ci rendiamo conto di come i pilastri dell’equilibrio sorto nell’immediato dopoguerra stiano vacillando in modo irreversibile.
Se davvero Aquisgrana rappresenta una sfida lanciata su scala globale a quello che rimane dell’egemonia Usa, il dibattito italiano sul trattato del 22 gennaio che verte su temi come la sconfitta della diplomazia italiana o dell’attacco diretto all’Italia populista, si distinguerebbe ancora una volta per il suo provincialismo. Forse la colpa più grande del mainstream attuale è stata quella di aver occultato la cruda realtà della globalizzazione dietro i proclami entusiastici che celebravano l’affermazione irreversibile di un mondo piatto e l’efficienza del commercio internazionale ideologicamente ancorato ai princìpi ricardiani della teoria dei vantaggi comparati.
La competizione senza quartiere che viene edulcorata dai modelli neoclassici ha, in realtà, fatto emergere politiche di stampo neo-mercantilista e la politica di potenza delle grandi nazioni, di cui il trattato di Aquisgrana è uno degli effetti più spettacolari. Il grande equivoco secondo il quale la libertà di commercio, di movimento della forza lavoro e di capitali sono il grande antidoto alle barbarie dei nazionalismi e alla guerra ha giocato sulla rimozione di una lezione che era già chiara a Polanyi: il libero mercato non è un’istituzione neutra né tantomeno “naturale” e una volta lasciato libero, può dispiegare tutta la sua forza distruttrice.
Il trattato di Aquisgrana, che sulle tracce di Carlo Magno vuole porre Francia e Germania ancora più al centro dello scacchiere internazionale, rischia invece di essere ricordato come uno dei passaggi più significativi di quest’epoca di incertezza.