Come può finire un Paese dove la magistratura, soprattutto per l’iniziativa e il protagonismo incessante dei pubblici ministeri, detta i tempi della politica e offre ai giudici, persino a quelli della Cassazione, la possibilità magari di programmare anche alcune vendette sui protagonisti politici del passato?
La notizia è che, con i soliti tempi di una giustizia che marcia con una lentezza che rappresenta, ancora una volta, l’esatto contrario della giustizia, dopo sette anni di inchieste e processi la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per corruzione all’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, che dovrà restare in carcere per 5 anni e 10 mesi. E ci entrerà al più presto, a meno che non si presenti spontaneamente.
Ci hanno impiegato oltre sei ore di camera di consiglio i giudici della cosiddetta “suprema corte”, per confermare la condanna inflitta a Formigoni in appello, riducendo la pena da 7 anni e mezzo a 5 e 10 mesi, perché una parte dei reati di cui era accusato è caduta in prescrizione.
C’è un particolare da brividi alla schiena sul futuro delle istituzioni di questo Paese, perché Formigoni ha compiuto 71 anni e avrebbe dovuto quindi essere condannato alla detenzione domiciliare. Ma è già entrata in vigore la nuova legge “spazzacorrotti”, direttamente figlia del populismo politico che si è sposato, dopo anni di “fidanzamento” stravagante e contorto, con il populismo giudiziario (quelli della cosiddetta “certezza della pena” che si sono dimenticati la certezza del diritto). E questa legge, quando si tratta di reati contro la pubblica amministrazione, decide il carcere anche per gli ultracentenari, alla faccia della pena che dovrebbe reinserire nella società il condannato, secondo la Costituzione.
E’ in questo modo che il nuovo ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede esordisce, naturalmente insieme al simpatico “giro” di giornalisti che hanno sempre sostenuto l’azione della magistratura. E tutti assisteranno, probabilmente applaudendo, all’entrata in carcere di Formigoni, naturalmente nel nome del rigore e della libertà e completezza dell’informazione.
Secondo l’accusa, l’ex governatore della Lombardia avrebbe ricevuto da Pierangelo Daccò, l’apriporte in Regione per fare arrivare finanziamenti all’ospedale San Raffaele e alla clinica Maugeri, una serie di vantaggi di natura economica e anche “ricreativa” come l’uso di uno yacht e altri benefit. Il difensore di Formigoni, l’avvocato Franco Coppi, ha fatto notare che non esiste “nessuna prova” di colpevolezza. Si dice “che Formigoni va in barca, che è invitato in vacanza, ma nessuno è riuscito a dimostrare la riconducibilità di un singolo atto di ufficio a queste utilità. Nessuno sa o è riuscito a dimostrare che cosa è stato chiesto a Formigoni e nessuno sa per quale cosa sono state corrisposte quelle utilità”.
Si può dire che moralmente Formigoni potrebbe aver commesso degli errori, ma non c’è nulla di penalmente illecito. Tanto più che i funzionari che avrebbero dovuto collaborare nell’illecito (Sanese e Lucchina) sono stati assolti.
Ma in Italia, in campo giudiziario, il concetto consolidato nelle grandi democrazie, dove si condanna solo “oltre ogni ragionevole dubbio”, non esiste e anche nelle sentenze si usa una logica induttiva. Quel concetto decisivo non può entrare in un sistema dove il pubblico ministero spopola e non si riesce neppure a parlare di separazione delle carriere, che esiste ovunque tranne che in Italia e in Portogallo.
Un noto direttore di giornale, un ultrà a favore dei pm, spiega che la separazione delle carriere la volevano Craxi e Berlusconi. Si è dimenticato, poveretto, di Montesquieu (sarebbe un abuso se giudice e accusatore facessero lo stesso lavoro), si è dimenticato di Tocqueville, si è dimenticato di Carnelutti, Calamandrei e Falcone, tanto per citare alcuni giuristi tra le migliaia che si contano nella storia italiana e in quelle di tutto il mondo democratico. Si è dimenticato anche di Marco Pannella, che della separazione delle carriere fece una questione della massima importanza per lo sviluppo della democrazia in questo Paese. In più si è dimenticato di una risoluzione del Parlamento europeo del luglio 1997 che rimproverava all’Italia (tanto per cambiare) di non garantire l’imparzialità del giudice nel processo tra accusa e difesa.
Sono solo dettagli, perché il populismo giudiziario, che è stato una premessa del populismo politico, è una sorta di “bomba a orologeria” per la democrazia e fabbrica sentenze politiche che, secondo la dizione di questi anni sventurati, si dovrebbero accettare e neppure discutere, così come si faceva in Unione Sovietica ai tempi di Andrej Januarevicic Vysinskij, il killer giudiziario di Stalin, e negli altri Stati di estrema destra, quelli fascisti.
L’avvitamento di questa giustizia italiana, divisa in correnti politicizzate e in procure quasi feudali, sta trascinando il Paese in una sorta di demagogia senza senso e inconcludente. Dal 1992, la famosa “età del contrario dell’oro”, sono state indagate o coinvolte, in certi casi incarcerate, ben 26mila persone, che nella stragrande maggioranza non avevano fatto nulla. Alcuni si sono anche suicidati.
Roberto Formigoni, governatore della Regione che offre all’Italia una quota di Pil decisivo, la più importante, che ha portato la sanità lombarda a eccellenze di livello mondiale, viene adesso condannato e a 71 anni deve varcare la soglia di un carcere.
Maurizio Lupi con una dichiarazione ha espresso tutto il suo sconcerto e sottolineato la sua immutata stima per Formigoni. Inoltre ha specificato che la condanna non fa giustizia all’immagine di un grande amministratore che ha fatto della Lombardia un modello di buon governo.
Si può aggiungere che tutte le sentenze si commentano. In Italia, in questi anni, le sentenze che riguardano i politici devono essere ancora più commentate, magari per vedere che non si sia sbagliato una volta di più.