L’ultima bocciatura europea è sale sulle ferite di un governo che già sanguinava. Le due coltellate che gli elettori hanno inferto al Movimento 5 Stelle in Abruzzo e Sardegna hanno colpito in pieno l’esecutivo, e non sono bastate le parole rassicuranti di Salvini a suturare la carne viva lacerata. Il giudizio contenuto nel Country Report della Commissione di Bruxelles (paese fermo, passi indietro sule riforme, orizzonte incerto) per di più coincide con quello che si pensa in molti palazzi romani, Quirinale compreso: da mesi, dal varo della legge di bilancio almeno, il paese è alla deriva, non è più governato, e ogni scenario è aperto.



C’è chi si spinge a parlare apertamente di una situazione di pre-crisi di governo. L’interrogativo è se il debole Giuseppe Conte riuscirà ad arrivare alle europee di fine maggio. Perché dopo tutti danno per scontato che qualcosa accadrà. Qualcuno, compresi i più assidui frequentatori del Colle, se lo augura ormai apertamente, dal momento che dilaga la convinzione che un governo così debole e diviso non sia in grado di gestire quella legge di bilancio lacrime e sangue che si delinea all’orizzonte, fra buchi creati da ipotesi di sviluppo non verificate, spese allegre e aumento Iva da evitare.



La crescente preoccupazione ha spinto Mattarella a un attivismo mai visto prima. Sul dossier Francia, ad esempio, di fronte a un governo in totale confusione il Capo dello Stato ha preso in mano la situazione, riuscendo nel miracolo di ricucire il rapporto con Macron. Il nodo Tav, però resta, e con esso quello di un paese che da una retromarcia rispetto a un trattato firmato e ratificato rischia di vedere compromessa la propria credibilità internazionale. Se non vi fosse il Quirinale alle spalle, infatti, non si capirebbe l’endorsement pro Tav del titolare dell’Economia, Giovanni Tria, tutt’altro che un cuor di leone.



La supplenza del Quirinale però non può essere continua. Sotto osservazione sono soprattutto i grillini allo sbando, perché le loro priorità tengono in ostaggio l’economia. E in più scelte come non schierarsi contro il presidente venezuelano Maduro o strizzare l’occhio ai gilet jaunes francesi sono considerate controproducenti e pericolose.

A questo punto la domanda è una sola: sino a quando Salvini resterà abbracciato a Di Maio? Fino al voto sardo era evidente che al leader leghista la situazione conveniva, dal momento che i consensi aumentavano anche per via della pochezza dell’alleato. Dall’isola però è venuto un campanello d’allarme: una vittoria con il candidato da lui voluto, ma solo l’11,3% dei voti alla Lega, quando l’attesa era per un 18-20%. Potrebbe essere il segnale che la condizione di favore, di aumentare i consensi qualunque cosa accada, è venuta meno. Non a caso fra i leghisti la parola d’ordine è “evitare il contagio” dello sfaldamento grillino.

Che farà, quindi, Salvini? All’indomani delle regionali in Sardegna è stato chiaro: ha detto di non aver intenzione di tornare nel vecchio centrodestra. Sì, par di capire, a un centrodestra deberlusconizzato, con Meloni, un pezzo di Forza Italia guidato da Toti, il siciliano Musumeci, il pugliese Fitto e forse persino una frazione di 5 Stelle senza l’ala sinistra di Fico e Di Battista. Un centrodestra con la Lega egemone, che dovrebbe essere certificato dalle europee, e subito dopo concretizzarsi. Senza Berlusconi, appunto, e i suoi ultimi pretoriani. Il guaio è che dalla Sardegna è arrivata una doccia fredda sulla scommessa dell’egemonia salviniana.

Nello stato maggiore leghista la discussione è aperta, e uno che la sa lunga come Giorgetti, prima di partire per gli Stati Uniti (dove cercherà di rassicurare gli investitori a stelle e strisce, presentando la Lega come garante della stabilità), ha raccomandato di non cedere in una battaglia storica come quella dell’autonomia delle regioni del Nord, sgradita ai grillini come la legittima difesa.

Ormai è chiaro che dopo le europee (se non vi saranno prima incidenti di percorso) la situazione prenderà a muoversi con estrema velocità. La pre-crisi potrebbe trasformarsi in crisi di governo. I 5 Stelle, qualora non dovessero spaccarsi, potrebbero essere tentati da una svolta bertinottiana, all’opposizione, per non scomparire. In quel caso la decisione fra nuovo governo e elezioni anticipate verrebbe di fatto presa sull’asse fra Mattarella e Salvini. Un voto politico all’inizio dell’autunno potrebbe essere giudicato al Quirinale come il male minore. Di sicuro già oggi non è più un tabù.