Finché il M5s è al governo la Tav non ha futuro, ha detto ieri il vicepremier Luigi Di Maio dopo che, venerdì, l’altro vicepremier Matteo Salvini aveva fatto un sopralluogo sul cantiere della Val di Susa difendendo l’opera: “Può essere rivista ma serve”. Alessandro Di Battista, che era a fianco di Di Maio in un comizio in Abruzzo, ha messo il carico da novanta: “Se la Lega intende andare avanti su un buco inutile che costa 20 miliardi di euro e non serve ai cittadini, tornasse da Berlusconi e non rompesse i coglioni”. Salvini stavolta ha smorzato i toni rispondendo come un vecchio democristiano: “Abbiamo sempre trovato un’intesa in questi mesi e la troveremo anche su questo”.
È l’ennesimo capitolo del braccio di ferro avviato da settimane tra i due alleati al governo. Per alcuni aspetti, è un confronto fisiologico: i partiti sono in campagna elettorale per un obiettivo immediato (le regionali in Abruzzo di domenica prossima) e per altri più lontani (il voto in altre Regioni e soprattutto in Europa), ognuno corre per conto suo (la Lega addirittura assieme a Forza Italia) e lo scontro è inevitabile. I 5 Stelle per l’occasione hanno richiamato in servizio Di Battista che si diverte a randellare senza pietà. Oltre che al braccio di ferro, Di Maio e Salvini giocano anche al tiro alla fune. Tra i due contraenti del contratto di governo la contrattazione è perennemente aperta.
La domanda da farsi è se lo scontro sia tutto riconducibile alla fisiologia o si cominci davvero a formare della ruggine negli ingranaggi dell’esecutivo. Gli strappi di Salvini, più che quelli di Di Maio, sono veri scossoni. Non tanto per la Tav, ma nel caso dell’autorizzazione a procedere per l’inchiesta Diciotti il leader leghista ha messo i grillini nel sacco costringendoli a scegliere tra la lealtà al governo e la lealtà ai loro elettori. L’altra sera a Porta a porta il ministro dell’Interno ha parlato di un programma economico che sembrava provenisse da Marte: taglio generalizzato delle tasse, lavori pubblici, agevolazioni agli investimenti. Salvini si rende conto di aver sacrificato troppo l’economia. Anche se i dati sulla recessione italiana fossero poco attendibili (non è così, ma ammettiamo per un attimo che la propaganda del governo abbia ragione), sicuramente non si discutono le previsioni di crescita della Germania, che qualche giorno fa sono state dimezzate. Berlino è il nostro primo partner commerciale: se rallentano loro, noi di certo non possiamo accelerare. E Salvini può scalare i sondaggi sui temi dei migranti, ma se l’economia non riparte dovrà vedersela con il suo elettorato del Nord.
Salvini punta tutto sulle elezioni europee. Non gli interessa, per ora, anticipare il voto in Italia perché gli va benissimo il governo che c’è: con 181 parlamentari tra Camera e Senato tratta da pari a pari con i 5 Stelle che ne hanno 327, quasi il doppio. Quello che non gli va è il rigore europeo. A chi gli contesta le clausole di salvaguardia e il rischio di sforare i parametri europei, il leader leghista risponde che tra sei mesi ci sarà un nuovo assetto a Bruxelles e tutto sarà rimesso in discussione. Operazione molto rischiosa ma in campagna elettorale tutto, o quasi, è lecito.
Nel confronto con i 5 Stelle, Salvini deve mostrare sempre la faccia truce per garantire agli elettori che lui merita fiducia perché mantiene quello che promette, come ha fatto finora con gli immigrati, infischiandosene di magistrati, pressioni europee, appelli vaticani e anche di un elementare senso di umanità. Il banco da far saltare è quello di Bruxelles, non di Palazzo Chigi. Dopo il voto, con la nuova Commissione europea insediata, si vedrà che cosa fare: se battere i pugni per strappare nuove concessioni di bilancio, oppure se restare in campagna elettorale puntando al voto anticipato.