Nell’articolo pubblicato ieri si diceva che vi è un’altra questione sulla quale una rottura del governo giallo-verde sarebbe, invece, augurabile che avvenisse, è gravissima, e non è certo – come molti vorrebbero – quella della Tav. La Tav ha acquisito, tanto per chi la combatte che per chi la invoca, un valore simbolico, che nessuno può negare. Ma – va detto con franchezza – non è da quest’opera che dipendono le sorti del Paese. E questo perché, come tutti sanno e fanno finta di non sapere solo quanti ad essa sono economicamente o politicamente interessati, altre opere, anche grandi, si debbono fare, e si faranno. Dipendono, invece, e in una misura politica ed economica di grande e lunga portata, da come si svilupperà l’azione del governo sulla cosiddetta autonomia differenziata, e cioè la trattativa sull’attribuzione a talune Regioni di competenze ora spettanti in via esclusiva allo Stato.
Di questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia differenziata di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto, e pour cause dato che proprio esse ne sono all’origine. Essa risale alla sciagurata riforma dell’art. 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema, che prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e sanità) ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal governo Gentiloni ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia ed il Veneto. Perché quel governo l’abbia stipulata non si sa: per una ingenua captatio benevolentiae dell’elettorato del Nord? per colpevole collusione con un establishment che nel settentrione ha in larga prevalenza le proprie radici ed i propri interessi e che, con sguardo miope, si aspetta di ricavarne benefici economici diretti o indiretti? o solo perché la pattuglia berlusconiana guidata da Verdini, di dritto o di storto, si è fatta valere? Sta di fatto che la Lega, comprensibilmente, di questa “pre-intesa” ha preteso l’inserimento nel “contratto di governo” e che il M5s vi ha acconsentito: si può solo sperare per palese e gravissima insipienza. La questione si è anche amplificata per l’analoga iniziativa dell’Emilia-Romagna e, ora, per le similari richieste della Liguria.
Il tema non riguarda solo le diseguaglianze che il potere normativo di singole Regioni può introdurre in ambiti delicatissimi come quelli dell’istruzione e della sanità: dalla qualità e quantità dei servizi, alla selezione e retribuzione del personale. E che – si badi – non possono essere certo evitate dalla fissazione di standard minimi nazionali (i cosiddetti livelli minimi essenziali), giacché questi sono, per l’appunto, minimi, e dunque danno spazio anche a macroscopiche diversità. Riguarda soprattutto le conseguenze fiscali che a questa modifica delle loro competenze le Regioni interessate pretendono che si accompagnino: Lombardia e Veneto hanno già chiesto che sia loro attribuito almeno l’80% di tutto il gettito fiscale raccolto nei loro territori.
E’ questo il cosiddetto federalismo fiscale, inteso in quel senso inconcepibile (contro il quale gli italiani si sono già pronunciati), che assume ”ingiusto” distogliere le risorse fiscali da dove sono state raccolte: secondo questo principio l’imposizione fiscale che un territorio ha subito deve vedersela restituita tutta nei servizi che gli vengono erogati, sicché se ha pagato di più deve avere di più.
Questo principio è esattamente il contrario della logica basica che presiede tanto al sistema impositivo che all’erogazione dei servizi pubblici: se fosse vero, allora, ciascun cittadino che abbia versato più imposte avrebbe diritto a maggiori prestazioni pubbliche (ad es., a più istruzione e a più assistenza sanitaria) degli altri cittadini (anche della stessa Regione) che, invece, ne abbiano versato di meno.
Ma – a considerarlo meglio – questo inverecondo principio è anche gravemente incostituzionale e mina dalle fondamenta la coesione nazionale.
È incostituzionale perché viola l’art. 2, che sancisce il dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale, l’art. 3, primo comma, perché istituisce contenuti diseguali dei diritti fondamentali dei cittadini (salute, istruzione, ecc.) in base alla loro residenza, l’art. 3, secondo comma, perché impedisce alla Repubblica di assolvere il compito di rimuovere le diseguaglianze materiali tra i suoi cittadini anche dipendenti dalla loro collocazione territoriale, l’art. 5, perché arreca un vulnus al principio di unità e indivisibilità della Repubblica col quale debbono necessariamente coniugarsi il riconoscimento e la promozione delle autonomia e, infine, l’art. 53 perché capovolge territorialmente i principi che sottopongono l’imposizione fiscale ai criteri generali della capacità contributiva e della progressività in favore dell’intera comunità nazionale. Ed è semplicemente evidente che la riforma dell’art. 116 non può mai condurre alla violazione di questi cardini del sistema costituzionale, che appartengono alla sua parte fondamentale e intangibile, la “prima”, che fissa i diritti e i doveri dei cittadini ovunque risiedano, cui sottostà l’interpretazione e l’attuazione della sua “seconda parte”, in cui ricade l’art. 116.
Ma mina anche, e in modo devastante, la coesione nazionale. I non molti che di questa pressoché occulta vicenda si sono occupati ne hanno concordemente parlato come di una “secessione dei ricchi” o di una “secessione del Nord”. Tutto il Centro-Sud d’Italia vedrà accrescere esponenzialmente, nel giro di pochissimi anni, i propri ritardi e le proprie arretratezze. Non solo si ritroverà con meno istruzione e meno sanità, ma vedrà ridotti i trasferimenti statali, ridotta per conseguenza la sua capacità di spesa e di consumo e disastrata, come ulteriore e inevitabile effetto, la sua già fragilissima economia. E questo, alla fine, danneggerà lo stesso Nord, le cui imprese vedranno compromesso più di metà del loro mercato interno.
Certo nessuno può negare i molti sprechi e le gravi colpe delle Regioni del Centro-Sud in ordine allo stato dei loro servizi sanitari e dello stesso loro sistema scolastico. Ma è altrettanto innegabile che a questo si potrebbe, e si dovrebbe, facilmente ovviare solo intensificando i poteri di controllo e di intervento sostitutivo dello Stato ed implementandoli in modo incisivo e radicale: ad es. prevedendo la responsabilità contabile – che fa ben più paura di quella penale – per chi compra siringhe ad un prezzo triplo di quello spuntato da altre aziende sanitarie. Come pure è innegabile che questo non si è mai fatto non per un malinteso rispetto delle autonomie regionali, ma solo per sordide e trasversali ragioni clientelari.
Come che sia, all’inefficienza e alla corruzione che affligge questi servizi cruciali delle Regioni del Centro-Sud (una corruzione che – come tutti sanno – non è solo loro, anche se altrove non si accompagna all’inefficienza) un paese, serio e rispettoso dei propri cittadini e dei loro diritti costituzionali, risponde rimuovendone le dirigenze e le loro articolazioni clientelari, e non certo abbassando le prestazioni di quanti hanno la sventura di subirle.
Ma vi è di più. La legge che a maggioranza assoluta dovesse approvare queste intese non sarebbe soggetta ad emendamenti del Parlamento, non sarebbe successivamente modificabile senza il consenso delle regioni contraenti, né sarebbe sottoponibile a referendum. Sicché solo un giudizio di incostituzionalità potrebbe farla cadere: col rischio evidente che, però, giunga in ritardo.
L’approvazione di una siffatta intesa e di quel che ne segue, questo sì, sarebbe il suicidio politico del M5s, che nel Centro-Sud ha la sua base elettorale. Ma non sembra che, allo stato, la sua dirigenza sia in grado di – o voglia – rendersene conto. E comunque questo è ben poco rispetto alle prospettive nere che si aprirebbero per il Paese e per la sua tenuta democratica.
Chi ha pensato a questa sciagurata autonomia differenziata conta, verosimilmente, sul controllo elettorale delle popolazioni del Centro-Sud per mezzo dei tradizionali grandi elettori e delle loro clientele. Ma non ha proprio capito due cose essenziali.
La prima è che la drastica riduzione dei trasferimenti statali implicherà il crollo delle risorse con cui coltivare ancora le clientele di un tempo ed il controllo elettorale che si pensa continuino a permettere. E la seconda, e ancor più importante, è che la crisi, nel Centro-Sud ancor più che altrove, ha ormai attaccato la stessa borghesia, che un ulteriore impoverimento la metterebbe alle corde e che la borghesia non si controlla con le piccole mance, specie quando è in discussione l’avvenire dei suoi stessi figli (che non possono tutti emigrare). Cosa questo fa presagire non è difficile intuirlo (tanto per dire: i gilet gialli hanno in gran parte questa estrazione sociale), come non è difficile immaginare cosa ne possa venire, di qui a breve, per la coesione nazionale.
È su questo, allora, che andrebbe intrapresa una battaglia fino alla crisi definitiva del governo giallo-verde: una campagna elettorale su questa “questione nazionale” (ché tale è a considerarla con un po’ di serietà) potrebbe essere la sola in grado di sovvertire le attuali previsioni elettorali. Ma da quest’orecchio neanche il Pd sente.