Si potrebbe parlare di un appuntamento ormai ricorrente: ogni legislatura, e talvolta ogni Governo che in essa si succede, porta con sé il tentativo di operare una qualche revisione della Costituzione. E così un paio di giorni fa il Senato, come recita il resoconto della seduta, con 185 voti favorevoli, 54 contrari e 4 astensioni, ha approvato, in prima deliberazione, il ddl costituzionale n. 214 e connessi, recante modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero di parlamentari. Il testo passa ora alla Camera per la prima deliberazione.



Il provvedimento, nel testo unificato proposto dalla Commissione, prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e del numero dei senatori eletti da 315 a 200. Una sforbiciata pari al 36,5 per cento dei componenti elettivi, ciò che, in epoca di antipolitica e di taglio dei costi della politica, il suo effetto lo fa. Del resto, anche a leggere la relazione che lo accompagna, le ragioni alla base dell’intervento non paiono tanto più profonde, né profondamente analizzate, trattandosi, “coerentemente con quanto previsto dal programma di governo”, di “riportare al centro del dibattito parlamentare il tema della riduzione del numero dei parlamentari, con il duplice obiettivo di aumentare l’efficienza e la produttività delle Camere e, al contempo, di razionalizzare la spesa pubblica”. Una sola concessione, a fronte di tanta stringatezza, è alla comparazione: “In tal modo, inoltre, l’Italia potrà allinearsi agli altri Paesi europei, che hanno un numero di parlamentari eletti molto più limitato”.



Quanto alla struttura del provvedimento, la relazione segnala “la valutazione positiva degli esperti di diritto costituzionale sulla scelta di modificare la Costituzione con interventi puntuali, anche per poter sottoporre ai cittadini un quesito comprensibile, qualora fosse necessario il passaggio del referendum confermativo”. Emerge, si direbbe, il senso di soddisfazione, almeno implicito, rispetto a quanto non ha invece fatto, da ultimo, il governo a guida Renzi, con gli esiti che tutti ricordiamo.

L’art. 1 modifica, così, l’art. 56, anche riducendo da 12 a 8 il numero di deputati eletti nella circoscrizione Estero.



L’art. 2 modifica l’art. 57, anche riducendo da 6 a 4 il numero di senatori eletti nella circoscrizione Estero, e intervenendo sul numero minimo di senatori eletti per Regione.

L’art. 3 sostituisce il secondo comma dell’art. 59, specificando una cosa ormai, in vero, assodata, cioè che “il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”.

L’art. 4 fissa la decorrenza delle nuove disposizioni, applicabili dal primo scioglimento o cessazione delle Camere, ma non prima di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge.

Vi sarà tempo, naturalmente, per approfondire il merito delle modifiche approvate.

Ci si limiterà, qui, a due rapide osservazioni.

La prima. Un intervento puntuale sulla Costituzione non significa necessariamente che le conseguenze siano solo sugli articoli modificati, a maggior ragione se, come in questo caso, si incide sulla composizione delle assemblee parlamentari. E non ci si riferisce solo ai riflessi sulle leggi elettorali e sulla (ri)determinazione dei relativi collegi, come sembra emergere, invece, dalla discussione parlamentare.

Cambia, infatti, il peso della componente non elettiva del Senato, rispetto all’Aula e rispetto al Parlamento in seduta comune. Cambia il peso delle Regioni e dei loro delegati nell’elezione del Presidente della Repubblica. Possono aversi ripercussioni sulla costituzione dei gruppi parlamentari (stante i numeri richiesti), sul funzionamento delle commissioni, e altro ancora.

La seconda osservazione attiene a quell’omaggio alla comparazione, prima ricordato. Finalmente allineati – almeno sul punto (stante la distanza su tanti altri temi, come la cronaca quotidiana non manca di evidenziare) – agli altri Paesi europei. Talmente allineati da spingersi oltre, finendo per avere un numero di abitanti per deputato pari a circa 150mila, per lo meno in questo in vetta alla classifica, seguiti, ma a distanza, dalla Spagna (133mila), dalla Germania e dalla Francia (116mila), dai Paesi Bassi (114mila) e giù giù da tutti gli altri, fino ai maltesi (con meno di 7mila). Con buona pace anche dei nostri costituenti, che nell’originaria formulazione dell’art. 56 della Costituzione avevano pensato a un deputato per 80mila abitanti (o per frazione superiore a 40mila), a comporre un collegio con numero non fisso ma variabile (scelta poi rivista nel 1963).

Ma, se se ne gioveranno l’efficienza e la produttività delle Camere, vogliamo rinunciare a un tale primato e non convenire con questa riduzione di rappresentatività?