Come in tutte le brave campagne elettorali che Dio comanda, anche il Pd ha avuto il suo atteso “confronto” tra i tre candidati a segretario. èEvidente l’obiettivo: cercare di spingere al voto di domenica un popolo di sinistra ancora troppo svogliato, in fondo perché disinteressato alle sorti future dell’ex primo partito italiano. Sarebbe questa la ragione principale per cui il più accreditato alla vittoria, e cioè Nicola Zingaretti, ha ceduto alla regola secondo cui un candidato ormai sicuro di vincere non concede il confronto agli sfidanti. Non lo concede per non offrire l’occasione di essere aggredito e perdere le staffe, oppure commettere un errore o semplicemente ritornare nelle vesti di candidato quando ormai tutti lo danno per vittorioso e lui già si comporta da segretario da settimane.



Zingaretti è molto migliorato da quando ha assunto in modo esplicito il ruolo di leader. Lo ha fatto quando ad un certo punto ha richiamato Calenda ad un comportamento unitario (“se vuoi costruire l’unità, cerca di essere più rispettoso degli altri”), o quando, esprimendo solidarietà umana a Matteo Renzi per l’arresto dei genitori, ha difeso il ruolo della magistratura (“sinceramente non credo mai ai complotti”), o quando ancora, pochi giorni fa, ha investito Giuliano Pisapia – ex sindaco di Milano e mancato “federatore della sinistra” nell’estate del 2017 – del ruolo non secondario e non privo di significati politici di capolista Pd per le europee nel Nord-Ovest.



Dopo averli visti per oltre un’ora rispondere da bravi scolaretti alle domande del giornalista Sky, la prima considerazione che viene da fare è che il dibattito non ha cambiato il corso della competizione. Anzi, ciascuno dei candidati ha cercato di rendere ancora più marcato il proprio profilo, rinunciando piuttosto a convincere gli ascoltatori proponendo una novità o presentando di sé un’immagine diversa da quella che fino adesso è emersa dalla loro piatta campagna.

Colpisce in particolare la scelta di Giachetti. Egli non si rende conto – e non può rendersene conto, da vecchio militante radicale qual è – di aver condotto le residue forze renziane in un vicolo cieco. Le truppe che si fregiano di aver in tutto e per tutto conservato un amore eterno per il loro vero e unico leader, si trovano ora assediate all’interno di un recinto isolato e destinate alla pura testimonianza. Dimenticano che in ogni caso il 3 marzo il popolo del Pd abbandonerà proprio Renzi al suo destino, e lo farà votando candidati alternativi o non andando proprio a votare. In questo modo la forza che ha dominato incontrastata dal 2013 il Pd si ridurrà inesorabilmente a una corrente di minoranza, rissosa e autoreferenziale. Per Giachetti una sconfitta sonora, almeno quanto quella portata a casa nelle elezioni romane del 2016 che hanno incoronato Virginia Raggi.



Martina ha deciso invece di giocare tutte le sue carte sul mantra dell’unità. Lo fa abbastanza noiosamente sin dalla riuscita manifestazione di piazza del Popolo del settembre scorso. L’ex segretario di transizione – candidatosi un po’ a sorpresa – non ha prodotto un pensiero che si allontanasse dall’elementare e ripetitivo concetto del “volemose bene”, considerata come unica terapia per un partito in fin di vita.

Eppure dopo i risultati abruzzesi e sardi anche i più perfidi commentatori sono disposti a dare al Pd una nuova chance. Sembra evidente che la deludente esperienza di governo giallo-verde sta aprendo un insperato spazio di recupero di voti a sinistra.

La qual cosa ha due significati precisi: da un lato il progressivo spostamento a sinistra del Pd potrebbe trovare un incoraggiante segnale di conferma in un voto europeo in risalita, dall’altro riappare il tema politico centrale nel prossimo futuro e cioè se può il Pd lavorare per un dialogo con un M5s in grande difficoltà.

Giachetti ha ripetutamente insistito sui due argomenti della propria campagna, che sono,  in sintesi, no ad accordi con i 5 Stelle, difesa totale di quanto fatto da Renzi nei suoi anni di potere assoluto. Però poi Giachetti non ha risposto alla domanda cruciale: rimarrai nel Pd se vince Zingaretti?

La verità sembra essere come al solito più triste e più cruda. Nelle more che il capo fiorentino in esilio sfoglia la margherita per capire se fare o non fare il suo partito personale, ogni spazio politico per iniziative del genere sembra chiudersi definitivamente. In realtà Giachetti e i suoi non rispondono perché – ahimè – non hanno una risposta: perché non sanno il loro capo cosa voglia realmente fare e perché incominciano a capire che la loro scelta – di candidarsi, rompendo il fronte anti-Zingaretti – ha aiutato la vittoria del presidente del Lazio e ora essi sono condannati ad una mera battaglia di opposizione, prigionieri nel Pd.