Al termine dell’ennesima giornata convulsa, il caso Tav si chiude con un compromesso pasticciato che significa, nella sostanza, un rinvio di 6 mesi per dare altro tempo al governo di dire finalmente una parola chiara sulle proprie intenzioni. Lo slittamento disinnesca momentaneamente un problema che ha portato l’esecutivo sull’orlo di una crisi che né Lega né 5 Stelle volevano, e consente a entrambi di cantare vittoria. Potenza delle parole e del camaleontismo della politica, sancito da due lettere diffuse dal premier Conte.
Domani sarebbero dovuti partire i bandi di gara per aggiudicare gli appalti dei lavori, già rinviati due volte: senza una fase applicativa entro il 31 marzo, sarebbero stati persi 300 milioni di finanziamenti europei. Succederà che la società italofrancese Telt darà via libera non a bandi, ma ad “avvisi di candidatura” – ovvero bandi preliminari e non definitivi – per i lotti francesi della linea ad alta velocità Torino-Lione. Quindi, si andrà avanti e non si perderanno i soldi di Bruxelles.
Tuttavia, gli “avvisi” prevedono una clausola di dissolvenza, che è una tecnica cinematografico-politica per tenere ancora tutto in sospeso: la clausola permette all’appaltatore in qualunque momento di non procedere alla seconda fase dell’operazione, cioè all’assegnazione vera e propria dei lavori. E l’eventuale stop determinato dal venir meno della volontà politica di procedere avverrà senza che l’appaltatore o lo Stato debbano pagare penali. La clausola non è una novità, in quanto prevista dal codice unico degli appalti francese, ma ora viene apertamente menzionata nelle lettere scambiate tra Conte e la società Telt.
La seconda fase fino a ieri era automatica; adesso invece dovrà essere avallata dai due governi entro sei mesi. In questi 180 giorni Conte intende ridiscutere con Parigi e Bruxelles l’intero progetto alla luce del prospetto costi-benefici. In sintesi, la procedura per i lavori procede come prima senza rinunciare ai finanziamenti europei, ma entro fine settembre sulla Tav resta pendente una spada di Damocle. La Tav va avanti senza che vengano presi impegni irreversibili. Dopo le vacanze il problema oggi nascosto sotto il tappeto si riproporrà. Alla luce del risultato elettorale e delle condizioni dell’economia italiana, Lega e 5 Stelle dovranno arrivare a una decisione. Per ora, i due partiti si accontentano di svelenire temporaneamente il clima e di spacciare, ognuno al proprio elettorato, un rinvio pasticciato come una clamorosa vittoria.
Di Maio ha portato a casa un semestre in cui ridiscutere il progetto Tav, come previsto dal contratto di governo. Sarà un cavallo di battaglia nella campagna elettorale pentastellata verso le europee. Per Salvini invece il risultato è che le procedure non vengono interrotte e che i 300 milioni di Bruxelles sono salvaguardati. Se nei prossimi mesi faticherà a trovare un accordo con Di Maio, il ministro dell’Interno userà i risultati del 26 maggio come una sorta di referendum pro-Tav, e potrà anche forzare la mano favorendo una consultazione popolare in Piemonte ed eventualmente facendo votare in Parlamento (a larghissima maggioranza) una mozione a sostegno dei lavori.
Chi vince? Nessuno, al momento. Ma se fosse un incontro di pugilato (cosa per certi versi molto verosimile), questa ripresa si chiuderebbe con una vittoria ai punti dei 5 Stelle che ottengono un rinvio e una sostanziale promessa di ridiscutere il piano.