“Il Tav è un tema delicato ma rimandato – dice al sussidiario Mario Sechi, direttore di List -. In questo momento il nodo cruciale è la nuova Via della Seta cinese, perché mette in questione tutta la nostra politica estera. E’ un dossier sul quale il governo ha molti meno spazi di manovra e non può fare il furbo con Washington. A dir la verità, nemmeno con gli altri partner europei”.



Il 23 marzo Di Maio e Conte firmeranno un Memorandum of Understanding, non un trattato ma un accordo che farà da cornice ad ulteriori progetti, dalle infrastrutture alla cooperazione finanziaria e alla comunicazione.

Sono tutti temi strategici, dai porti all’energia e alle reti, che riguardano la postura internazionale dell’Italia nei forum di cooperazione. L’agenda è interamente politica e non potrebbe essere altrimenti.



Come mai la Cina ha trovato una sponda proprio nell’Italia?

Ha potuto farlo a causa della nostra classe dirigente debole. Non da oggi, sia chiaro; ma viene da pensare che al governo non sappiano come funziona il capitalismo cinese. Di Stato o privato fa poca differenza, perché tutte le grandi aziende cinesi sono espressione del partito comunista, che governa lo Stato e l’economia. Gli investimenti cinesi hanno sempre una proiezione politica.

C’è anche la complicità della grande crisi?

Sì perché tra 2007 e il 2008 la Cina ha cominciato a fare shopping e l’Italia, che era ed è un paese dove c’è penuria di investimenti, le ha consentito di farlo. Resta il fatto che aprire ai cinesi significa aprire a uno Stato opaco, di cui non si sa nulla o si sa molto poco.



Un grande tessitore dei rapporti con la Cina prima di Michele Geraci (Lega) è stato ed è Romano Prodi. Le direbbe che queste finalmente un’opportunità per l’Italia.

No che non lo è. La crisi economica non ci autorizza a svenderci al miglior offerente. Non siamo un paese in via di sviluppo che sta cercando di emergere, ma la la seconda manifattura d’Europa. E stiamo firmando una resa. Non solo: un obiettivo della nuova collaborazione con la Cina sarà l’Africa. Lo ha detto il Mise nel settembre scorso. Nel momento in cui la Francia si attrezza per contrastare la politica di penetrazione cinese in Africa, l’Italia, che a Gibuti ha perfino una base militare, coopera con la Cina?

Che cosa dovrebbe fare il governo?

Fare blocco con l’Unione Europea. Certo avere litigato con la Francia non ci aiuta. Diciamoci la verità: i francesi si sono comportati benissimo, perché dopo gli exploit dei 5 Stelle e la nostra sceneggiata sulla Tav avrebbero potuto presentarci il conto. Invece Macron si è mostrato molto collaborativo.

Ma l’Europa sembra sempre più a fine corsa. Le pare in grado di darsi una politica estera che non ha mai avuto?

L’Unione è solo il classico vaso di coccio, però è un enorme mercato, il più ricco del mondo, e questo è un vantaggio che noi, insieme all’Europa, dovremmo mettere sul tavolo. Il valore dei beni scambiati in un giorno tra Ue e Cina si avvicina al miliardo di euro; cifre che interessano anche ai cinesi. Occorre negoziare. In fondo è quello che sta cercando di fare Trump al tavolo sul commercio: girare a proprio favore una partita nella quale gli Usa partivano svantaggiati per il loro deficit commerciale gigantesco (621 miliardi di dollari a fine 2018, ndr).

Tutto questo, tradotto in concreto, che cosa significa?

Significa che l’Italia non può competere sul piano di una sfida tra giganti. Come Europa invece potremmo dire la nostra: se la Cina vuole fare affari con noi deve farlo con reciprocità, senza fare dumping, rispettando il lavoro delle persone. C’è modo e modo per fare gli accordi. Farli da soli, unico paese del G7, senza nessun coordinamento con l’Europa e irritando gli Usa, è stato un errore.

Si può rimediare?

Secondo me tocca alla Lega cercar di raddrizzare in modo più favorevole agli Usa il Memorandum, smussando o evitando di fare accordi su temi sensibili.

Altrimenti?

Fare un passo falso con l’alleato americano può costare caro. Proprio quando meno te lo aspetti.

Secondo lei verso l’Italia c’è anche un problema da parte americana?

In effetti sì, perché l’adesione dell’Italia a “One Belt one Road” dovrebbe far capire a Trump che è necessaria una presenza maggiore nelle questioni italiane. Ma raccogliamo i frutti della diplomazia Usa negli anni di Obama. I tempi di Ronald Spogli (ambasciatore in Italia durante la presidenza G.W. Bush, ndr) sono purtroppo ormai lontani.

(Federico Ferraù)