Il 1993 è lontano da noi solo 25 anni, ma sembra ieri a rileggere queste frasi e ad accostarle alla tensione tra Italia e Stati Uniti sui rapporti con la Cina: «L’impressione generale all’ambasciata era che fosse venuta l’ora di ripulire le cose. E se questo avesse significato cambiare la classe politica, non ci saremmo opposti». Parole di Daniel Serwer, incaricato d’affari e quindi capo della rappresentanza diplomatica dell’Ambasciata americana in Italia, in una ricostruzione della crisi di Tangentopoli e dell’atteggiamento del governo americano a riguardo.



Le ingerenze americane nella stagione giudiziaria che decapitò la vecchia classe politica e pose fine alla Prima Repubblica sono ormai consacrate negli annali. Qualcuno le ricollega a una vendetta fredda contro Craxi per lo schiaffo di Sigonella, qualcun altro a un appoggio velato all’astro nascente di Berlusconi. Fatto sta che a rileggere la storia, da quel ’93 a ritroso, le tracce dell’ingerenza sono costanti ed evidenti, e in fondo del tutto giustificate strategicamente, dalla Liberazione in poi.



Su queste premesse, sottovalutare l’irritazione americana per l’aperturismo del governo giallo-verde nei confronti della Belt and road, o Via della Seta, comunque la strategia cinese di apertura ai commerci internazionali e in particolare via terra con Asia ed Europa, sarebbe un errore. I toni guasconi e irruenti del presidente Trump confondono le idee e le giravolte del personaggio sono ormai proverbiali, ma contro Pechino fa sul serio, intende ricondurre l’operatività cinese a un atteggiamento più aderente alle attese americane, ha promosso numerosi importanti “reshoring” di colossi industriali americani dalla Cina al territorio americano, sta reclamando un netto incremento delle importazioni cinesi dagli Usa a discapito di quelle da altri mercati, ha adottato pesanti forme di condizionamento economico e molte altre ne ha minacciate.

Impensabile che entrare nel novero degli alleati prediletti della Cina in Europa sia igienico per chiunque voglia mantenere un buon rapporto con questa Casa Bianca. Che peraltro tra un anno e mezzo potrebbe cambiare inquilino: ma anche no, visto che a oggi la maggior parte delle previsioni scommette su un secondo mandato per Trump.

In sé, peraltro, e a oggi, le relazioni economiche del nostro Paese con la Cina sono più millantate che effettive: nel 2018 il valore di tutte le nostre esportazioni in quel Paese è stato di poco superiore ai 13 miliardi di euro. Quelle verso gli Stati Uniti sono ammontate a 42. Ma anche quelle verso la minuscola Svizzera sono quasi il doppio, 22. Inoltre, e a dispetto dei sorrisoni, l’appello agli investimenti finanziari sovrani cinesi in Italia lanciato da Conte personalmente e dai suoi ministri durante la prima crisi dello spread è miseramente caduto nel vuoto. E anche per molti altri argomenti a supporto è difficile pensare che l’appoggio alla Belt and road di un’Italia – che peraltro oggi in Europa conta come il due di bastoni quando la briscola è a coppe – sia rilevante agli occhi dei cinesi, tanto da meritare chissà quali contropartite. Pechino se ne frega di noi, comprensibilmente. E dunque, in nome dell’incerto, pregiudicare il rapporto subalterno ma fruttuoso che l’Italia ha da sempre con Washington è una mossa a dir poco imprudente.

Bene ha fatto quindi il Quirinale a imprimere una drastica frenata agli slanci dell’esecutivo dichiarando, se non altro, l’esclusione dagli accordi della partita sul 5G, una rete digitale di diffusione (e quindi controllo) dei dati degli italiani che nel giro di un paio d’anni prenderà piede e che cambierà i connotati delle relazioni digitali tra Paesi e dentro i Paesi. È sul ruolo preponderante che il colosso Huawei sta assumendo nel mondo su questo genere di reti che si concentra il massimo allerta statunitense, e il più severo dei “no” preventivi richiesti ai Paesi alleati.

Ci stavamo distraendo anche su questo, Mattarella ha rimesso il governo in carreggiata. Ma insomma, l’impressione è che il dilettantismo non abbia cessato di prosperare tra palazzo Chigi e la Farnesina.