Una recente dichiarazione del ministro degli Esteri cinese Wang Yi che è circolata sui social network americani è particolarmente significativa perché si riferiva a ciò di cui si parla incessantemente da alcuni giorni. Leggiamo: “Storicamente l’Italia è stata una fermata della Via della Seta. Diamo il benvenuto all’Italia e ad altri paesi europei che prendono parte attiva alla ‘Belt and Road Initiative’. l’Italia è un Paese indipendente e confidiamo possiate attenervi (voi italiani) alla decisione presa da voi in modo indipendente”. Così dicendo, il ministro rispondeva a una domanda sulle “pressioni esterne che vengono dagli Usa sulla adesione di Roma alla Via della Seta”.
Se si vuole avere contezza di che cosa sia una visione imperiale del mondo bisogna leggere con attenzione questa dichiarazione. Dall’Italia non è venuta alcuna risposta. Passività tanto più grave se si mette in relazione questa dichiarazione con quella che si può trarre da una conferenza pronunciata dalla commissaria europea per il Commercio, Cecilia Malmström, all’Università di Georgetown negli Stati Uniti.
Cito anche questa volta: “La risposta da dare alla Cina è stata la nostra (dell’Unione Europea) principale preoccupazione degli ultimi dieci anni”. La commissaria che viaggia negli Stati uniti per cercare di ricostruire quei ponti commerciali che oggi appaiono in crisi parlò della competizione necessaria con l’Impero di Mezzo purché, dice, “essa sia fair e si sviluppi sempre dietro a delle regole. La Cina invece sta approfittando della nostra disattenzione in merito a queste regole”.
In questo contesto stanno giungendo alla fine i preparativi per la visita che il presidente cinese Xi Jinping compirà prossimamente in Europa. La visita cade significativamente proprio nel momento in cui l’Unione Europea, tra mille difficoltà e indecisioni, sta cercando di porre in atto un nuovo meccanismo di controllo degli investimenti stranieri in Europa. Ed è significativo che ciò accada nel mentre sta montando sempre più la polemica franco-tedesca contro le norme antitrust europee oggi vigenti, di cui si chiede un radicale rinnovamento in senso à la Brandeis, ossia più attento ai temi dell’occupazione e della sostenibilità sociale più che all’astratto e fanatico modello del consumatore finale razionale.
È significativo che le nuove norme su cui l’eurocrazia sta lavorando a Bruxelles siano scritte in francese e in tedesco, come dicevo, e che contro di esse si stia sempre più sviluppando (debolmente in verità) la resistenza dell’Italia e del Portogallo. Entrambe queste nazioni hanno annunciato la loro adesione all’erigenda Via della Seta. Si sono sprecate le dichiarazioni del sottosegretario Michele Geraci dei 5 Stelle e ha avuto grande risalto internazionale l’intervista che il primo ministro portoghese Antonio Costa ha rilasciato recentemente al Financial Times. In quest’intervista il grande poeta che guida coraggiosamente un governo di sinistra storica e non immaginaria, che ha saputo bene opporsi con flessibilità democratica e rigidità sostanziale all’austerity franco-tedesca, ha criticato fortemente quella riscrittura delle regole prima citate poiché esse potrebbero inaugurare quel protezionismo contro la Cina che sinora, a parer mio, non si è sciaguratamente mai eretto e che invece per l’illustre poeta sarebbe disastroso per il Portogallo e l’intera Europa.
In verità quello che preoccupa soprattutto la cuspide tecnocratica dell’eurozona, riflettendo una preoccupazione soprattutto tedesca, è il volume degli investimenti cinesi che si sono diretti in quei paesi dei Balcani sempre così febbricitanti e soprattutto in quelli che sono candidati ad accedere al club europeo. Mi paiono molto significative le dichiarazioni che pochi giorni or sono il Commissario europeo Johannes Hahn ha pronunciato sostenendo che sino a oggi l’Unione Europea ha sovrastimato l’influenza russa in quelle nazioni mentre ha fortemente sottovalutato quella cinese. E così ha aggiunto: “La Cina non si preoccupa mai se una nazione può pagare i suoi crediti e di come può farlo. E se tali nazioni non possono farlo la Cina allora esercita pressioni di ogni tipo per appropriarsi dei beni e delle opere che hanno generato tali debiti con trasferimenti di proprietà”. L’allusione che si legge tra le righe è in riferimento al saccheggio in forma mongola.
Del resto sappiamo tutti che le strane società di costruzioni cinesi, a metà capitalistiche e a metà partitocratiche, hanno iniziato i lavori di grandi opere come le autostrade in Siria e soprattutto quella linea ferroviaria tra Budapest e Belgrado che dovrebbe ancor più rafforzare la già esistente linea ferroviaria che già collega la Cina con il cuore teutonico di Duisburg. Il drago cinese, è noto, possiede altresì già il porto del Pireo e una quota rilevante di quello di Trieste e si sa che continua a manifestare interesse sia per quello di Napoli, dove ha già stretto accordi con i gruppi armatoriali locali, sia verso il porto di Genova. Fatto che sta impensierendo non poco il porto di Marsiglia e il governo francese.
I francesi, quanto meno le loro élites, ricordano la storia e sanno che Cavour difese Genova contro Marsiglia, ma che per far questo dovette far perdere all’aristocrazia piemontese i territori della Savoia e le rive di Nizza. Se si riflette sul fatto che il Portogallo ha già ceduto ai cinesi il porto di Sintra, ben si comprende come il plesso delle città anseatiche dei Paesi Bassi, Porto di Rotterdam in primis, abbiano grandi preoccupazioni per questo attivismo cinese e rafforzino la loro alleanza con la Germania che non a caso ha continuato a tenersi ben stretta, almeno sinora, la Spagna che è rimasta sorda alle sirene dell’Impero di Mezzo.
Per questo è sconcertante la decisione italiana di pensare di risolvere i propri problemi economici (almeno in parte) con un’alleanza con la Cina proprio mentre essa ha in corso una polemica fondamentale per l’ordine geo-politico mondiale con gli Stati Uniti certo sul commercio estero, ma in verità sui temi della proprietà intellettuale e sul sistematico saccheggio tecnologico che la Cina opera nei confronti degli Usa. l’Italia rischia così di isolarsi tanto dall’Unione Europea quanto dagli Usa. E la gravità di questa posizione è che essa si sviluppa abbandonando ogni sana polemica che invece con l’Europa ordoliberista occorre condurre.
Lo ricordava addirittura il Financial Times di ieri, 8 marzo 2019, con l’occhiello di un titolo a pagina 8 molto ragionevole e saggio: “Italy and others should recognize Belt and Road’s geopolitical goals”. E così concludeva: “The EU has the money and the power to be an equal partner in shaping a pan Eurasian economy. But for that, it must be as eager to invest as Beijing, and just as focused on its political goals”. In questa prospettiva le iniziative del già citato sottosegretario Michele Geraci sono oltremodo rischiose e riprovevoli e hanno un peso geopolitico enormemente sottovalutato da tutto il Governo.
Giancarlo Giorgetti è appena tornato dagli Usa e, oltre alla stima e all’amicizia americana di tutte le parti politiche e del Presidente verso la nazione italiana e questo Governo, deve aver portato con sé la preoccupazione che questo patrimonio venga intaccato. Ma la sua visita non ha avuto l’eco che si meritava e mi sorge il dubbio che tutto il grande can can sulla Tav non sia altro che una cortina fumogena per distrarre l’attenzione dei più da questo rischio fatale che corre non tanto il Governo attuale, ma l’Italia intera. Sospetto che diventa induzione ragionevole sol se si pensa al fatto che tra i baroni caciquisti della cosiddetta opposizione dell’arcipelago Pd vi sono decennali rappresentanti degli interessi cinesi in Europa e in Africa che tutto criticano del Governo salvo che questa folle iniziativa che corre sulla Via della Seta.