Lunedì, la sera del grande fuoco, il piccolo presidente di Francia m’era parso sincero, smarrito. La sera del grande fuoco, che ha bruciato coscienze e ipocrisie, il presidente che si sente Napoleone m’è parso contrito, di poche parole, sommesse, lasciato il passo all’arcivescovo della città. Era intimorito, forse le fiamme gli danzavano nella mente foschi presagi.
Per una volta ha chiesto aiuto, si è piegato a chi in quel momento gli ricordava quanto i simboli contino, non i tronfi apparati che la sua propaganda sa apparecchiare. La sera del grande fuoco si sono sforzati tutti di capirlo, quest’uomo inadatto a star di fronte alle tragedie, ad assumersi responsabilità. Che poteva mai dire, davanti al cuore di Parigi che si consumava tra baluginii infernali. Ha parlato anche lui di Europa, di cristianità, come tutta la Francia si è sperticata a fare, da subito, dimenticando che quelle radici cristiane a fondamento dell’Europa non figurano nella sua Costituzione proprio per la pervicace opposizione francese. Ma tant’è, Notre Dame l’avevano già semidistrutta gli antenati e i maestri di chi oggi governa.
Tuttavia, un presidente che arriva a capo chino, cede il passo all’autorità ecclesiastica, chiede sostegno e offre speranza ci aveva quasi convinti. Poi, è arrivato martedì, il gran fuoco era stato spento, e il piccolo presidente ha assunto un’altra aria, quella consueta. Squillo di trombe, la Marsigliese lo introduce, e lui parla alla nazione. Le stesse cose della sera prima, solo con la solita arroganza, la solita spocchia. Sul “siamo un popolo di costruttori”, parte lo sberleffo, perché non s’è mai visto l’appello a un popolo di distruttori, e alla retorica c’è un limite.
Non bastava. L’accenno quasi distratto alla necessità di accantonare le polemiche politiche sembrava magistrale, suonava grossolano. La prosopopea di restaurare la basilica in soli 5 anni smaschera l’intento: sono i 5 anni che ancora gli restano, se riuscirà a portare a termine il mandato.
Insomma, il fuoco si è spento, la paura è scemata, giochiamoci anche l’incendio per raccattar voti, magari tra quei cattolici che pregano lungo la Senna (“gesti simbolici”, hanno detto solerti funzionari di stampa). Giochiamoci l’obiettivo da sventolare alle europee: ricostruiremo il sogno europeo come questa cattedrale. Intanto facciamo scordare i gilet gialli, continuiamo a sostenere Haftar per innescare l’ennesima guerra in Libia, trascuriamo l’evidenza che i restauri di Notre-Dame sono stati pensati, allestiti e realizzati male. E poiché la proprietà è dello Stato, che tutto domina e controlla, è allo Stato che chiediamo conto di quel fuoco, della mancanza di sistemi d’allarme e sensori, per spender meno; di quel fuoco e di altri più piccoli fuochi che divampano nell’amata Francia, e sfregiano altre chiese, anch’esse di proprietà dello Stato. Il suo Stato dov’è?
Per Notre-Dame sta ricevendo molti soldi: ne usi un po’ per preservare, anziché ricostruire; per proteggere, uomini e cose e simboli. Che nonostante le demolizioni ideologiche, sono gli unici a restare nella testa e nel cuore della gente. Per esortare il popolo a uno sforzo di unità, bisogna aver qualcosa da proporre, un progetto e un ideale. Il suo qual è? Spartirsi la Ue con la Germania?