Verrebbe da dire: siamo alla resa dei conti, il governo si sfascia. Poi viene da fermarsi e da chiedersi: ma cosa c’è più di serio, di presentabile, in questa gazzarra indecente che la maggioranza gialloverde sta mettendo in scena agli occhi allibiti di quella parte, piccola, di italiani che non assimila ancora la politica a una pagliacciata?
Riepiloghiamo i fatti. Due procure – non una – indagano Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture, su un’ipotesi di reato grave: corruzione per aver favorito un imprenditore in odore di mafia. Lui si dice serenissimo e replica di non avere alcuna intenzione di dimettersi. Luigi Di Maio, vicepremier e capo dei 5 Stelle dice: “Sarebbe opportuno che Siri si dimettesse”. Attenzione: non dice “Si dimetta”, dice “sarebbe opportuno”. La Raggi, sindaca pentastellata di Roma, a lungo indagata per un reato prossimale a quello della corruzione, è stata difesa dal suo partito per due anni, durante i quali – come ha ricordato, replicando polemicamente a Di Maio, Matteo Salvini – la Lega ha sempre appoggiato la linea garantista del partito-partner.
La stessa Raggi avrebbe preteso di imporre a un suo manager un trucco contabile, secondo un’anticipazione del prossimo Espresso, e di fronte al rifiuto dell’interessato – che per questo l’ha denunciata – lo avrebbe licenziato. All’apprendere questa indiscrezione, il capo della Lega ha detto: “Se è vero, la Raggi si deve dimettere”. Ma a Porta a Porta ha aggiunto che però tutto questo non tocca la stabilità del governo perché “abbiamo ancora troppe cose da fare per gli italiani”. Spettacolo compreso?
Intanto Danilo Toninelli – il ministro più improbabile del mondo, quello secondo cui il tunnel del Brennero sarebbe già bell’e fatto – ha scelto il passo politico forte di togliere le deleghe a Siri.
Il quale Siri – intendiamoci – probabilmente non è un colosso né della politica né dell’economia, mentre sicuramente è un uomo di Salvini.
Da una parte abbiamo un partito fallito, i 5 Stelle, che si è dimostrato incapace di intendere e di volere, ha inanellato in nove mesi un’impressionante sequela di gaffe, ha dimostrato di non avere uomini, di vivere un rapporto opaco con la piattaforma Rousseau, insomma è stato mollato da quasi la metà dei suoi elettorali occasionali, stando ai sondaggi. Ha imposto la misura del Reddito di cittadinanza, che non sta funzionando come si pensava e voleva. E dunque è votato a sicuro tracollo alle prossime elezioni europee. La sua base detesta la Lega e Salvini, solo i vertici confermano il matrimonio d’interesse in atto ma più si allineano alle posizioni leghiste più perdono voti.
Dall’altra parte abbiamo il partito più antico d’Italia, la Lega, che si è ripresa dall’abisso nel quale l’aveva precipitata una storia di ruberie più ancora che di corruzione – quella dei 48 milioni di euro di rimborsi elettorali evaporati – grazie ad una gestione nordista tutta imperniata sull’autonomia del Nord e sul federalismo. Inopinatamente questo partito, da sempre nel centrodestra, accetta l’anno scorso di fare comunella con i 5 Stelle, firmando un programma di governo (pardon, contratto) che oltretutto prevede le dimissioni dei ministri indagati.
Oggi questo partito cerca voti al Sud, contro ogni aspettativa del suo elettorato del Nord. Ha accettato di posporre la sua flat tax al reddito di cittadinanza caro ai 5 Stelle, che premia soprattutto il Sud. Il suo leader Salvini ha ottenuto copertura alla sua linea dura contro l’immigrazione illegale, che però ha finito – per ora – di portargli consenso proprio perché la linea dura ha pagato, e dunque c’è bisogno di altri argomenti per trattenere e sviluppare il consenso dei sondaggi che per la prima volta dopo un anno dalle elezioni del 2018 ha smesso di crescere.
Il collante Lega-M5s è stato finora il potere. I 5 Stelle sono stati ben descritti dall’altro assessore romano inquisito che ha dovuto dimettersi e che, intercettato, diceva: “E quando ci ricapita?”. La Lega non ha più l’appoggio di Berlusconi, ridotto povero lui a sperare di prendere un 10% dei voti come se fosse un successo, e pensare che aveva il 30 per cento.
La vera domanda è questa: è vero che Di Maio ha bisogno di recuperare identità rispetto a un elettorato che gli rimprovera di essere diventato lo scendiletto di Salvini, e chiedere le dimissioni dell’incolore Siri gli è sembrata una buona mossa; ma se Salvini dovesse porre una mozione di fiducia sul suo ministro, “o lo lasciate lì o salta tutto”, cosa farebbe, Di Maio? E viceversa: se i 5 Stelle insistessero nel chiedere la testa di Siri, Salvini cederebbe o pur di coprire Siri romperebbe l’asse con Di Maio?
Il collante dell’interesse – gestire poltrone e potere, altro che governare gli italiani – c’è e resta fortissimo. Ma la sostenibilità di questo matrimonio di interessi è legata a compromessi via via sempre meno sostenibili, da ambo le parti. Sul logoramento di questo matrimonio, il caso Siri potrebbe incidere come mai finora nessun altro inciampo.