Il dibattito che ha seguito l’accordo fra il governo italiano e quello cinese sulla Nuova Via della Seta presenta notevoli aspetti di novità per l’opinione pubblica del nostro Paese, la quale, solitamente, oscilla fra un compiaciuto atteggiamento autoreferenziale e isolazionista e uno afflitto da secolari sensi di colpa che condannano l’agenda politica nazionale a essere sempre e comunque influenzata da quello che avviene oltreconfine.



Due facce di uno storico provincialismo, che a fronte di un evento che ha tratti epocali, come l’ingresso dell’Italia nella Road and Belt Initiative, è stato costretto a fare i conti con tutti i propri limiti.

Era forse dai tempi della Guerra fredda che non si assisteva a qualcosa del genere. In una corsa al posizionamento, politici e opinionisti di ogni schieramento e importanza si sono sentiti in obbligo di dire la loro sull’accordo con la Cina. Una strana nostalgia per un’epoca di contrapposizioni frontali, che in realtà è funzionale a celare, dietro una presa di posizione identitaria, la cronica mancanza di coraggio, idee e programmi delle nostre classi dirigenti.



Mentre c’era chi si interrogava morettianamente se è più di sinistra essere contro o a favore della Cina, a destra si evocava una versione aggiornata e tecnologica del “pericolo giallo” che avrebbe colonizzato l’Italia.

Niente di nuovo sotto l’italico sole, si potrebbe dire, se non fosse che il dibattito sulla Nuova Via della Seta ha fatto venire alla ribalta schieramenti e gruppi di pressione che generalmente non amano essere sotto i riflettori. Le conseguenze del trattato di Aquisgrana e della firma del famigerato Memorandum sulla Nuova Via della Seta hanno avuto conseguenze notevoli su un quadro politico caratterizzato dalla debolezza dei partiti tradizionali. I programmi e le ideologie sono stati sostituiti da atti di fede da fare pubblicamente circa la propria collocazione nello scacchiere delle relazioni internazionali.



Quello che era il partito europeista, che vorrebbe raccogliere la nobile eredità di Altiero Spinelli e di Jean Monnet, si è rivelato essere un partito franco-tedesco, ammaliato dal bonapartismo carismatico, o almeno in Italia è reputato tale, di Macron e dal materno rigore della Merkel, mentre quello che rimane del partito atlantista avanza a ranghi sparsi, aspettando di capire finalmente cosa abbia in testa il presidente Trump.

Sul versante filo-cinese ci si divide fra chi ha un atteggiamento pragmatico e possibilista e chi, invece, prefigura una rottura con l’Europa dell’austerità a guida franco-tedesca.

In un contesto in cui, al netto della campagna elettorale permanente, i partiti mutuano i loro programmi da idee-forza partorite all’estero, il sovranismo sembra avere gioco facile sugli avversari, brandendo slogan che rimandano a un non precisato interesse nazionale. Ma a ben vedere anche il sovranismo non è estraneo a questo clima. Per certi versi, rappresenta il sintomo più evidente della crisi del sistema Paese. La simpatia per le democrature di Putin o di Orbán non rappresenta forse un altro caso di importazione di modelli pensati fuori dai confini nazionali?

Il trattato di Aquisgrana e la Nuova Via della Seta hanno messo la classe politica italiana di fronte alla responsabilità di fare scelte che comportano decisioni coraggiose e che richiedono di avere un’idea sul modo in cui il Paese deve affrontare le incertezze di questa fase della globalizzazione. Ma, mentre cresce la domanda di progetti politici che sappiano coniugare innovazione e tradizione, la classe politica nostrana abdica del tutto alla propria funzione, affidandosi a forze a lei esterne. Non si discute su come uscire dalla crisi, ma su quale Paese possa aiutarci a farlo, magari invocando interventi esterni che non arriveranno mai. Dopo aver perso la sua connotazione ideologica e la base sociale, e dopo la fine della stagione dei partiti personali, alla politica non rimane che gestire il Paese per conto terzi.

I grandi giornali nazionali non sono estranei a questo gioco: vere e proprie macchine della quotidiana indignazione (anti)nazionale e fustigatori dell’insipienza italica, si esercitano nella continua ricerca di modelli esteri virtuosi a cui il Paese deve conformarsi. A costo di sembrare cinici, ci si dovrebbe interrogare su quanto poco disinteressata sia questa sdegnata reprimenda e sulla provenienza degli interessi che la muove.

Nel contesto italiano neoliberismo, populismo, europeismo e sovranismo sembrano essere concetti vuoti, che rimandano strumentalmente a schieramenti che rispondono a interessi che trovano la loro ragione d’essere fuori dai confini nazionali. Parole d’ordine che connotano partiti e fazioni solo in funzione di un posizionamento all’interno dello scacchiere internazionale.

La debolezza del sistema Paese si misura proprio nel rapporto subalterno che le sue classi politiche hanno maturato rispetto alle forze che le impongono “vincoli esterni” di natura formale e informale. Una volta che si è abbandonata ogni strategia di lungo e medio periodo e che si sono smarriti i rapporti privilegiati con gli interlocutori tradizionali, alle classi dirigenti del nostro Paese non rimane che affidarsi al posizionamento tattico e alla speranza di aver puntato sul cavallo giusto. Non bisogna essere particolarmente avveduti per capire che, in un contesto internazionale caratterizzato da instabilità e competizione senza quartiere, un atteggiamento del genere, che è al contempo remissivo e spregiudicato, rischia di mettere a rischio l’integrità del sistema paese.

Paolo Sylos Labini nel suo “Ahi serva Italia: un appello ai miei concittadini” auspicava una rinascita civile e ideale del Paese basata sulla libera e consapevole assunzione di responsabilità di ogni singolo cittadino. Un’uscita dallo stato di minorità, che consentirebbe finalmente di avviare un autonomo processo di sviluppo economico e sociale.

Ma il Paese sembra aver preso un’altra strada; il suo destino al momento sembra essere in bilico fra la possibilità che esso cada nelle mani di qualche incantatore di folle o che diventi preda degli appetiti di nazioni che in puro spirito neo-coloniale si spartiranno le sue spoglie.