Il “caso Siri”, che è esploso nella lotta politica di opposizione e di governo in questi giorni in Italia, merita qualche considerazione più generale. Si ha il dovere morale, prima che intellettuale, di esporsi su quel crinale della verità che è la ricerca sociale. In Italia è in atto da tempo una nuova transizione politica e i teorici delle transizioni politiche quando discutono di politicizzazione della magistratura hanno in mente un postulato semplice ed essenziale: che la magistratura sia un potere neutrale poiché estraneo a una legittimazione politico-elettorale e che, in quanto neutrale, debba stare per ciò stesso al di sopra delle “parti” nell’agone politico democratico e, di norma, non debba influire sui suoi esiti così come sul suo divenire. Ove il contrario avvenga, significa che siamo di fronte, quanto meno, a un indizio forte (anche se non esaustivo) di crisi del regime democratico vigente (almeno in potenza).
Le cose non sono così semplici. Neutralità e politicità non sono qualificazioni destinate a elidersi a vicenda per il fatto che corrispondono a due ordini di proprietà fondamentalmente diverse che possono ben convivere fra loro. La mancanza di uno specifico mandato politico-elettorale non preclude affatto alla magistratura di svolgere un ruolo intensamente politico nella funzionalità del sistema. Anzi, proprio questa sua formale neutralità statutaria può essere interpretata dalla magistratura come la propria abilitazione a una continuativa funzione di controllo della legittimazione del potere politico nell’esercizio delle sue funzioni rappresentative e decisionali. Solo che, in fasi di coesione e di stabilità del regime, quella funzione può magari restare latente: cioè contenuta entro l’alveo del policy making. Nelle fasi critiche e nelle relative turbolenze di sistema, essa può emergere allo scoperto e, come un fiume carsico, inondare di sé le pianure più coltivate del consenso politico e dei suoi beneficiari.
Ma non potrà dirsi che si è trattato di un’improvvisa politicizzazione della magistratura: bensì della compiuta esplicitazione dell’intrinseca e costante politicità della sua azione. La quale politicità è direttamente innestata proprio sul tronco maestro della separazione dei poteri e della correlativa terzietà del giudice. Il problema consiste nel fatto che questo costrutto fisiologico assai complesso degli Stati e delle forme politiche moderne e contemporanee può degenerare patologicamente, così come oggi accade a livello mondiale.
Gli stati contemporanei sono costituiti da un nocciolo esistenziale che è l’interpenetrazione costante e diffusa tra Stato e società, fra Stato e mercato, fra mercato e società. La stessa previsione di un mercato e la stessa sua organizzazione e regolazione si configurano come opzioni specifiche dello Stato e, come tali, sono oggetto di negoziato politico e normativo e diventano una specifica posta in gioco per conseguenti processi decisionali, regolativi e allocativi che coinvolgono poteri privati e pubbliche autorità su scala nazionale e sovranazionale, così come regionale e locale. In una parola il mercato non esiste senza lo Stato e lo Stato a sua volta è luogo e strumento di mercato. È qui il nucleo essenziale di quelli che Alberto Predieri (e con Lui Natalino Irti) chiamava gli “stati osmotici”. Il tutto si traduce in una continua contaminazione fra i circuiti della rappresentanza politica e della mobilitazione partigiana degli interessi.
Ora, l’affermazione così chiara e distinta che fu di Massimo Borlandi – e che oggi è senso comune – che “tutti i sistemi politici moderni devono […] la propria coesione ad una divisione del lavoro tra la magistratura, lo Stato e la società politica ed alla loro comune azione di contenimento o di ‘filtraggio’ delle spinte al cambiamento che provengono dalla società civile” pecca di schematicità. Perché? Perché proprio nella embricatura tra le due sfere e i due circuiti del sistema crediamo stia la radice della rilevanza della magistratura ai fini della legittimità e della funzionalità del sistema stesso. La magistratura, infatti, integra, indebolisce o dissolve, in misura che può risultare decisiva, la capacità del sistema politico di non rimuovere, ma di assorbire ed elaborare, a un tempo, gli impulsi endogeni al suo divenire e, per ciò stesso, la legittimazione che storicamente ne sostiene l’efficacia e la coesione. E lo fa agendo proprio nel confluire di Stato e di mercato, di politics e policy, di politica come esercizio dell’autorità del potere pubblico e politica come contrattazione incrementale di regole, di risorse e di opportunità per gli interessi che compongono la società civile.
Alla base di questo assunto c’è una constatazione che sfiora la banalità. Tutti i giorni e in tutti i regimi si può infatti osservare come l’interpretazione della legge e del suo significato – cioè la funzione primaria del giudice -, sia compiuta a opera del magistrato ponendo a confronto la voluntas del potere sovrano con la specifica ratio del caso da dirimere. La ricerca e la ponderazione giudiziaria del significato della specifica questione da risolvere avviene sulla base di norme, di valori e di principi di “ragionevolezza” del diritto che possono far ritenere, agli occhi di quel singolo giudice, le prescrizioni legislative da applicare più o meno consone al senso e al valore più profondi che egli attribuisce al singolo caso.
È un fatto che in Italia – a partire da Tangentopoli – uno dei fattori cui di norma competono funzioni di integrazione e di mantenimento di equilibrio tra le componenti sub-sistemiche di una democrazia consolidata, si è rovesciato in una variabile di segno esattamente opposto. La magistratura è infatti diventata il cuneo o il cretto lungo il quale ha potuto prima svilupparsi e poi esplodere la crisi del sistema politico nel suo complesso. Ed è un fatto, in particolare, che la magistratura sia stata il deus ex machina della disintegrazione precipitosa dell’immagine e della credibilità di un intero ceto politico (e di una quota importante dell’intera classe dirigente). Materiali di scarto sono divenuti argomenti culturali. Ma codesta politicizzazione dei “poteri neutrali” – come ci insegnano gli studiosi dei processi di mutazione dei regimi politici come Juan Linz – è una delle costanti tipiche delle crisi di regime.
Oggi, infatti, e in Italia più che mai, i valori dell’Occidente come la democrazia, la libertà, i diritti della persona o i “diritti dell’uomo” (preferisco queste categorie concettuali a quella indistinta e demagogica di “diritti umani”) sono oggi ridiscussi in un nuovo scenario: quello dello Stato in disgregazione o nell’incapacità di formarsi in tutto il mondo. La de-statualizzazione o la non statualizzazione oggi in atto in tutto il mondo è un fenomeno complesso che presenta pochi punti di continuità con le forme storiche di costruzione poliarchica. Laddove lo Stato modernamente inteso si è inverato, esso è sottoposto a una deriva che risiede nell’assenza di compulsività del concetto di sovranità politica. Essa è continuamente insediata dal potere politico non neutrale della magistratura. Questo in tutto il mondo.
l’Italia ha fatto scuola con Tangentopoli, scuola di un processo che si è esteso a tute le poliarchie a stato osmotico, come dimostra da ultimo il caso sudamericano. La magistratura è l’ultima vertebra in uno Stato che è osmotico e insieme disgregato. La legittimazione è stata sottratta allo Stato da nuove forme di giacobinismo giustizialista che hanno i loro precedenti politici in fenomeni quali il plebiscitarismo e le svariate forme della democrazia diretta. I nuovi mass-media hanno saldato il potere giudiziario con quello mediatico che corrisponde alla crisi dello Stato con l’enfasi – osmotica, appunto – delle carenze della classe politica nel rappresentare interessi generali e non particolari. Dai suoni e dalle immagini che promanano dai mass media e dal ruolo dispiegato e urlato della magistratura sembra che la virtù politica non esista più.
L’osmosi è divenuta delegittimazione continua. Un avviso di garanzia è divenuto di già una colpevolezza, e una condanna, subita anni or sono, nella vita di una persona è divenuta una colpa da cui non ci si può più redimere. È sorta una visone demoniaca dell’essere: si deve essere colpevoli per sempre. L’osmosi è divenuta, attraverso la politicizzazione giurisdizionale, che non è, a parer mio, solo volontaria, una forma strutturarle di poliarchie a basso tasso di democrazia rappresentativa e ad alto tasso di demagogia plebiscitaria, quali sono queste in cui viviamo. l’Italia ne è una variante drammatica e suicidaria.