In Molise, in Veneto e in Friuli Venezia Giulia si richiamano i medici in pensione per far fronte alla carenza di specialisti, acuita anche dagli effetti stimati di Quota 100, mentre per lo stesso motivo in Puglia si reclutano medici dalla Romania. Ed entro il 2025 in Italia mancheranno 16.700 camici bianchi. In Lombardia, invece, si discute di un ritorno del pubblico nella sanità, mettendo così in discussione uno dei punti chiave di quel “modello lombardo”, realizzato dalle giunte Formigoni, che ha portato la regione a livelli di eccellenza nel panorama italiano. In questo caso, è la mano pubblica che vuole tornare a far sentire la sua presa sulla sanità, di gran lunga la principale voce di spesa dei bilanci regionali. E nelle Regioni con carenza di medici, si avverte il segnale che una gestione centralizzata non sempre garantisce risultati in linea con le esigenze e le aspettative del sistema. Due facce che fanno emergere un unico problema: alla sanità italiana serve oggi una nuova governance? Su quali fondamenti dovrebbe poggiare? E il “modello lombardo” è proprio da buttare? Lo abbiamo chiesto a Remo Arduini, professore di economia sanitaria presso il Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi dell’Università Statale di Milano, che ha curato il libro Una nuova governance per la sanità (Franco Angeli, 2019), realizzato con il contributo di esperti del settore.
Professore, la sanità ha oggi bisogno di una nuova governance?
E’ un tema che sto accarezzando da una decina d’anni, attraverso briefing, incontri, tavole rotonde. In termini molto schematici, che ovviamente il libro poi articola e approfondisce, sono partito dalla constatazione che il processo di aziendalizzazione e il nodo della sostenibilità della sanità non fossero sufficientemente approfonditi. L’aziendalizzazione, iniziata con la legge 502 del 1992, nel tempo si è evoluta, a causa della regionalizzazione, a macchia di leopardo, determinando divari più o meno ampi tra Regione e Regione.
A che conclusioni è arrivato? In che condizioni si trova il sistema sanitario italiano?
Innanzitutto, l’idea di fondo, in positivo, è: come si fa a rendere più efficiente la macchina della sanità, che per la stragrande maggioranza è di proprietà pubblica e di produzione pubblica, quindi con un evidente conflitto d’interesse, visto che chi fissa le regole è lo stesso soggetto che poi produce ciò che serve? E’ chiaro che soprattutto in alcune realtà del Nord si sono fatti grandi passi avanti, ma ci sono situazioni di grande arretratezza e difficoltà, anche se la sanità non è certo il peggiore tra i servizi pubblici italiani. Resta ancora in piedi un riconoscimento positivo di carattere generale. C’è, poi, una seconda esigenza, quella di por fine a uno dei mali della nostra vita collettiva: la presenza invasiva dei partiti politici nella gestione, che è intollerabile. Sia chiaro, sono favorevole ai partiti come espressioni della democrazia, ma oltre certi limiti, che noi abbiamo superato, non si può andare, soprattutto nella sanità.
Perché?
La sanità è diventata una delle forme di finanziamento dei partiti a livello locale, tenuto conto che il 75% del bilancio di una Regione fa capo proprio alla spesa sanitaria. Vorrei, perciò, che si modificasse l’assetto dal punto di vista istituzionale, favorendo una diversa soluzione. E non vale certo il detto che basta cambiare i partiti per cambiare la situazione: è una strada non percorribile.
Come si risponde, allora, a questa esigenza di rendere più efficiente la macchina della sanità? Quale ricetta propone?
L’adozione di un modello che è una Spa privata benefit, figura giuridica nata 5-6 anni fa, già presente in altri Paesi, ma da noi scarsamente utilizzata. In questa Spa benefit è opportuno che partecipi la Regione, a cui spetta la maggioranza perché è giusto che la proprietà sia mantenuta a livello pubblico, mentre la quote restanti possono essere suddivise tra privato, profit e non profit, e al limite l’ente locale.
Che vantaggi offre questa formula?
Tiene un po’ più lontani i partiti dall’interferire nella gestione. La politica esprime giustamente gli indirizzi generali, ma non deve scegliere le persone, perché chi gestisce un’azienda guarda alle competenze, all’efficacia e all’efficienza. Non ci devono essere commistioni.
E’ un progetto realizzabile?
Se intende dire: quante possibilità concrete ci sono oggi di realizzare questa progetto? La mia risposta è semplice: nessuna.
Le ragioni di tanta franchezza?
Tutti i sindacati e tutti i partiti sono contrari, anzi, non esiterebbero a dire che in tal modo si svende il servizio pubblico. Ma non è affatto così. Se si rompe l’intreccio, creando una struttura privatistica, chi gestisce deve rispondere al proprio Cda e alla propria assemblea, e non più al referente politico di turno. Così si può infrangere la cristallizzazione in cui ci troviamo e che fa comodo a tanti. Non ho, infatti, mai sentito una richiesta di più statalismo così forte come in questo frangente storico e politico.
Anche in Lombardia c’è chi invoca un ritorno al ruolo centrale del pubblico. Ma la sanità deve essere gestita solo dallo Stato?
No. Tanto che anche in una Regione a forte presenza statalista come l’Emilia-Romagna la presenza del privato è tutt’altro che marginale.
Ma il “modello lombardo”, lanciato e implementato dalle giunte Formigoni e incentrato sulla libertà di scelta del paziente e sul sistema dell’accreditamento delle strutture pubbliche e private, è da buttare?
Innanzitutto, mi lasci dire che si sarebbe dovuto fare uno sforzo politico maggiore proprio per esportare il modello in altre Regioni. Un modello molto apprezzato, pur essendo qualificato politicamente, che sarebbe tornato utile anche in altre situazioni, almeno per poterne verificare l’impatto: avrebbe funzionato in altre Regioni come in Lombardia o no? Anche perché in Lombardia – è giusto ricordarlo – la sanità funzionava bene anche prima della riforma Formigoni. Detto questo, e a parte il fatto che nell’ultimo mandato sono stati commessi errori e si è un po’ vivacchiato su quanto fatto negli anni precedenti, libertà di scelta e accreditamento delle strutture sono princìpi che vanno migliorati.
In che modo?
Soprattutto nelle funzioni di controllo, che talvolta sono state troppo neglette. Si poteva fare di più e di meglio. Era l’occasione per dimostrare che si poteva gestire la macchina con maggiore trasparenza. Infine, accanto a figure di prim’ordine, potevano e dovevano essere scelte persone meno mediocri, che come tali dovevano essere trattate.
Guardando ancora oggi ai dati dell’emigrazione ospedaliera, il modello della Lombardia si conferma di assoluta eccellenza. Come è stato costruito?
Il merito va senza dubbio alla felice intuizione di fondo: mettere sullo stesso piano pubblico e privato, in modo che la scelta per poter avere il servizio migliore fosse in capo al paziente, dato che l’offerta di entrambi – pubblico e privato – era soggetta alle medesime regole e condizioni attraverso il meccanismo dell’accreditamento. Anche la separazione tra Asl e ospedali, aggregando le strutture per avere maggiori economie di scala e maggiori competenze, è stata una scelta virtuosa. La Asl, emanazione sul territorio della Regione, a cui spettano compiti di indirizzo e di programmazione, non la vedo privata, mentre l’ospedale deve essere sempre più potenziato e concentrato. E’ un processo lungo, ma lo strumento della società benefit lo facilita e può aiutare anche nel reperimento dei mezzi finanziari.
I critici della separazione tra Asl e ospedali lamentano che così è venuta meno l’integrazione dei servizi…
Vero, ma l’integrazione non può avvenire tramite il direttore generale, il quale, se esercita il ruolo in una Asl al cui interno è presente un presidio ospedaliero, tenderà a orientare, in modo subdolo o diretto, la scelta del paziente. Con la separazione, invece, il cittadino può scegliere.
Non pensa che nella sanità, come nella scuola, la libertà di scelta faccia un po’ paura al sistema?
Certo. Troveranno sempre il modo di tornare indietro. Anche là dove viene applicato questo principio resiste l’idea che la mamma-Stato debba intervenire nel nome e per conto dei cittadini. Io credo che il salto di dare maggiore autonomia sia assolutamente da promuovere, non da cancellare.
Anche i costi standard potrebbero migliorare il livello generale della sanità?
I costi standard non sono mai stati adottati, ma sarebbero assai utili. Non ha alcun senso che ci siano divari molto ampi nei prezzi, per esempio, delle siringhe. I costi standard permettono un confronto, così da poter scovare le anomalie, perché quando le differenze sono eclatanti, è chiaro che non è un problema di mercato. E’ un problema di ben altra natura.
Come si può affrontare, in un’epoca caratterizzata da vincoli stringenti di bilancio pubblico, il nodo gordiano del finanziamento del Servizio sanitario nazionale?
Noi ci lamentiamo sempre che si danno poche risorse alla sanità e si dovrebbero dare più soldi, come ai trasporti o alle scuole. Tutto vero. Il pesante fardello del debito pubblico, che prima o poi dobbiamo tentare di scalfire, non fa però ben sperare che in futuro si potranno liberare più risorse per finanziare la sanità e altri servizi pubblici essenziali. Quindi dobbiamo cercare di spremere le meningi per trovare altre soluzioni diverse.
Quali, per esempio?
Nel libro si parla di una soluzione già adottabile. Sempre più la sanità ha bisogno di poter attingere risorse anche dal privato. E mi spiego con un esempio. Il fabbisogno sanitario deriva dall’invecchiamento della popolazione, il che porta a un aumento delle patologie croniche, e dal progredire delle tecnologie, che hanno trasformato e sempre più trasformeranno il mondo della salute. Le tecnologie richiedono investimenti, che il pubblico avrà sempre meno. Ecco allora l’idea: nel capitale della Spa benefit si possono coinvolgere come soci anche le aziende produttrici di macchinari costosissimi, come per esempio le Tac, offrendo loro un mercato sicuro, che non può certo essere un piccolo ospedale, ma una struttura dimensionalmente più robusta. Un grande ospedale garantisce un numero di operazioni e di interventi tale da poter offrire anche un migliore standard di sicurezza agli utenti. Allo stesso modo nella Spa benefit potrebbe entrare anche il non profit.
E’ di questi giorni l’allarme che già con Quota 100, ma soprattutto entro il 2025, in Italia mancheranno migliaia di specialisti, tanto che già oggi Molise, Veneto e Friuli Venezia Giulia si vedono costretti, e con un certo affanno, a richiamare in servizio medici già in pensione, mentre in Puglia si va a cercare il personale addirittura in Romania…
Noi oggi ci troviamo di fronte a un’insufficiente offerta di medici, perché, dopo anni di sovrabbondanza, abbiamo stretto le maglie all’ingresso. Oggi dobbiamo valorizzare di più il ruolo degli infermieri: sono laureati e ben preparati, hanno cioè il background adatto per poter gestire i pazienti. Bisognerebbe poi modificare, fin da subito, i tempi dei corsi di specializzazione, perché alcuni sono troppo lunghi.
Per Il Sole 24 Ore la carenza di medici specialisti è il segnale di una Caporetto del sistema sanitario italiano. E’ davvero così?
Il sistema sanitario italiano è tra i primi quattro al mondo e, se è pur vero che ci sono situazioni specifiche locali allarmanti e disastrose, specie al Sud, in generale non vedo alcuna Caporetto. Certo, vanno migliorate le strutture e sarebbe anche il caso di investire con decisione, utilizzando massicciamente le tecnologie, nel self service sanitario. Un po’ come le banche hanno fatto con l’introduzione dell’home banking. Perché non rendere facilmente fruibili online prenotazioni e referti, risparmiando così sui costi della burocrazia?
Un altro tema molto sentito dai pazienti è quello delle liste d’attesa, che – tra l’altro – costano ai pazienti oltre un miliardo all’anno. Come si possono evitare o quanto meno limitare al massimo?
E’ un punto dolente della nostra sanità. Anche qui è un problema di scarsi investimenti: bisogna fare di più, in termini di apparecchiature disponibili e di personale dedicato, sia nel pubblico che nel privato accreditato. Nel contempo, però, bisogna anche selezionare meglio le prestazioni, perché in molti casi si registrano usi disinvolti, se non abusi. Si fanno troppe prescrizioni, troppi esami. Introducendo dei ticket, si può incidere sulle abitudini.
L’invecchiamento della popolazione e le cronicità sono le nuove sfide che la sanità italiana deve saper affrontare. Come vincerle?
Quello dei malati cronici è un grosso problema, che in Lombardia abbiamo iniziato ad affrontare bene. Poi, la riforma Maroni ha adottato altri criteri, che – sulla carta – giudico molto favorevolmente, come la presa in carico della cronicità attraverso un piano personalizzato frutto di un accordo tra il paziente e la struttura che lo ha in cura. Peccato, però, che nel concreto non sia successo nulla.
(Marco Biscella)