Per la prima volta quest’anno il 25 aprile sarà celebrato con un governo in cui nessun partito si richiama alla Resistenza. È quindi da interrogarsi sulle ragioni che vedono la maggioranza degli italiani sostenere forze politiche il cui modo di intendere la democrazia rappresenta una soluzione di continuità con tutte le tradizioni e componenti dell’antifascismo e perché nell’anniversario della Liberazione manchi oggi un sentito ricordo nel segno dell’unità nazionale.
Come sfondo c’è una generale disaffezione alla democrazia che è andata diffondendosi in Occidente nel clima della globalizzazione economica. La democrazia – le regole, il pluralismo, la collegialità, i controlli – è sempre più vissuta come un handicap nella competitività, nel “braccio di ferro” tra economie. La Cina irrompe sui mercati muovendosi con forza, determinazione e – soprattutto – rapidità di decisione governativo-aziendale e intervento territoriale come “un solo uomo”. Russia e paesi “emergenti” attaccano le economie occidentali sotto la guida di governi con “meno democrazia” ma “più mani libere”.
Dai paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, si reagisce con richiesta di nazionalismo, sovranismo, leadership forti e sbrigative. Chi poteva rappresentare antitesi e antidoto ha dimostrato confusione e impotenza, a cominciare dall’Unione Europea che – archiviato ogni progetto di Costituzione con valori e di integrazione con “patriottismo” geopolitico – proprio negli anni in cui le collettività nazionali vivevano la crisi economica e sociale si è spoliticizzata e ha assunto i panni di una commissione di controllo tecnico senza ideali e proposte di rinnovamento.
In questo quadro di generale spostamento a destra, anche da sinistra in Italia ci si è molto allontanati dagli ideali che avevano animato l’Assemblea costituente. Oggi gli stessi tutori della Costituzione – dal Quirinale alla Corte costituzionale – recitano una fedeltà alla Costituzione antifascista su un palcoscenico di cartapesta. Introduzione di sistema maggioritario, leadership carismatiche di partito e di governo, uso incostituzionale della carcerazione preventiva per far “confessare”, nascita della legislazione retroattiva sono tutti colpi dati alle basi stesse della Costituzione. Si è legittimato ciò che per la Carta – come sottolineano i suoi “Commentari” da Calamandrei a Branca – sono negazione dell’architettura costituzionale italiana e simbolo di autoritarismo.
A logorare la celebrazione del 25 aprile è stata, inoltre, nei decenni passati la manipolazione della verità storica con la cancellazione della realtà e del pluralismo della Resistenza. Basti pensare all’apporto dei militari, al caso di Cefalonia tratta dall’oblìo con Pertini negli anni 70, ma che ancora negli anni 90 i testi considerati più innovativi come Una guerra civile di Claudio Pavone insistevano nell’ignorare. Ancora oggi a Milano si nasconde che protagonista della Liberazione è stata la Guardia di Finanza su mandato del Cln dell’Alta Italia.
La Resistenza è stata allontanata dalla collettività nazionale nel momento in cui la si è sequestrata e strumentalizzata con unilateralità partitica fino a lasciarla usare come legittimazione dell’estremismo e della violenza.
Certo, nel celebrare la Liberazione siamo ancora ben lontani dal modo in cui anche il pur sciovinista De Gaulle – che era uscito dalla Nato cacciando gli americani dalla base vicino a Parigi e che metteva il veto all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune – celebrava la Liberazione della Francia facendo sfilare con le loro bandiere, americana e inglese, soldati sugli Champs Elysées e navi al largo del Porto di Marsiglia. Siamo, cioè, ben lontani dall’impegno preso nel 1945 da Palmiro Togliatti che, in dicembre, al congresso ricostituivo del Pci, prometteva: “Ricorderemo in eterno i soldati e gli ufficiali inglesi, degli Stati Uniti, della Francia, dell’Africa del Sud, dell’Australia, del Brasile, i quali hanno lasciato la loro vita o versato il sangue loro per la liberazione del suolo della nostra patria”. Noi, infatti, il 25 aprile celebriamo in realtà non la Liberazione, ma solo una delle sue componenti: la Resistenza.
Eppure la Resistenza dovrebbe essere da tutti gli italiani ricordata in segno di generale gratitudine. Almeno per tre ragioni fondamentali.
È grazie alla Resistenza che l’Italia non è stata trattata come la Germania: disarmata e fatta a pezzi. Grazie alla lotta armata degli antifascisti la nostra sovranità nazionale è stata rispettata, i nostri confini – nonostante la sconfitta in una guerra dichiarata da Vittorio Emanuele III, che era re ancora nel 1946 – sono stati poco ritoccati (nella Valle d’Aosta francofona gli Alleati negarono il referendum sull’adesione alla Francia, che sarebbe stata maggioritaria in quanto la popolazione – Pci locale compreso – preferiva non appartenere a un paese sconfitto). Il capo del comando unificato delle brigate partigiane (Cvl), il generale Cadorna, è stato il primo capo di Stato maggiore dell’Italia liberata e il suo vicecomandante, Ferruccio Parri, è diventato capo del Governo. Gli Alleati hanno dato piena fiducia alla nuova classe dirigente espressa dal Cln e si sono ritirati rispettando la nostra autodeterminazione, che includeva anche l’ipotesi di un’adesione allo stalinismo.
In secondo luogo, è l’“Italia della Resistenza” che ha disegnato la Carta costituzionale, la cui elaborazione e redazione furono il frutto di entusiasmo, convinzione e compromesso tra le componenti che – inizialmente unite nel giugno del 1946 e poi aspramente divise nel gennaio del 1948 – l’hanno insieme scritta e approvata. Si tratta di un testo da non ritenere demagogicamente intoccabile nella stessa prima parte, ma che ha rappresentato e rappresenta tuttora l’identità di una democrazia liberale, pluralista e occidentale con forte caratterizzazione dei valori di tutela sociale.
In terzo luogo – piaccia o meno – l’“Italia della Resistenza” ha fatto sì che vi sia stata la forma più lieve di “guerra fredda”. Al di là del vittimismo aggressivo dei comunisti e dell’estrema sinistra, in realtà in Italia la “guerra fredda” è durata solo fino al 1953. Morto Stalin, finita la guerra di Corea, sconfitto Alcide De Gasperi, la Dc nel 1954 ha aperto al Psi ancora frontista e nel 1955 Giovanni Gronchi è stato eletto al Quirinale con il voto dei parlamentari stalinisti. Per quarant’anni l’“Italia della Resistenza” – con il cosiddetto ”arco costituzionale” – è stata la base di una tenuta istituzionale e sociale, nonostante crisi e tensioni attraverso ripetute strette economiche e anni di terrorismo tra i più violenti e duraturi nei paesi occidentali.
Purtroppo, oggi, rischiamo di avere una delle peggiori commemorazioni del 25 aprile a uso elettoralistico. Un vicepremier, Matteo Salvini, annuncia di disertare ogni celebrazione per puntare a raccogliere i voti neofascisti, da CasaPound a Forza Nuova, mentre il co-vicepremier, Luigi Di Maio, pensa al 25 aprile come carta da giocare insieme al giustizialismo per recuperare i voti persi e prefigurare un “piano B” con il Pd in caso di rottura dell’alleanza gialloverde. E da sinistra è da attendersi il protagonismo dei “centri sociali”, all’ombra dell’Anpi, contro la Brigata Ebraica.