Dopo 5 anni “entusiasmanti, anche se a volte molto complessi”, Massimiliano Salini, europarlamentare di Forza Italia eletto nel 2014, ha deciso di ricandidarsi alle Elezioni Europee 2019 del 26 maggio per il Parlamento europeo. “Oltre a essere una risposta alla proposta formulata dal Ppe e dalla sua espressione italiana che è Forza Italia, la mia ricandidatura è anche la risposta a un’esigenza che ho maturato: continuare a far sì che l’Europa recuperi la sua origine, la sua memoria, concretamente, dentro le nuove sfide attuali”. Salini, che giovedì 11 a Milano (ore 21, presso il Pime, in via Mosè Bianchi 94) parteciperà – assieme a Paolo De Castro, europarlamentare Pd – all’incontro organizzato da IlSussidiario.net dal titolo “Chiamami ancora Europa. Bilanci e prospettive alla vigilia delle elezioni”, ha risposto ad alcune domande sulla sua idea di Europa. Partendo da una convinzione: “In Europa c’è bisogno di molta Italia”.
Perché?
L’Italia è tangibilmente un paese fondatore dell’Unione europea, che prima di Maastricht si chiamava molto più appropriatamente Comunità europea. E la struttura economica della Ue è forgiata sulla genialità e creatività, soprattutto in ambito manifatturiero, italiana. Oggi è un peccato vedere come molto spesso gli italiani dentro le istituzioni europee vivano complessi di inferiorità, che sono ingiustificati. Il modello di sviluppo, economico e di welfare, dell’Europa è figlio della storia del nostro Paese. L’attuale difetto è l’aver deciso di allontanarci da quel modello, che ha una sua origine ben precisa: la tradizione greco-latina-cristiana.
Ma è l’Italia stessa che spesso viene relegata in secondo piano dai partner europei, non crede?
E’ vero, l’Italia fatica ad avere il ruolo da protagoniste che le compete, ma per colpe proprie. Sta commettendo lo stesso errore dell’Europa: ricorre all’istinto, e non alla memoria, per costruire un futuro più solido e innovativo dell’Europa.
Di che memoria si tratta?
Ciò che da sempre caratterizza la forza del nostro Paese – libertà, dignità e creatività della persona – è diventato un orpello nella programmazione politica. Il punto essenziale sembra essere diventata la paura della persona o, dal punto di vista sociale, la povertà delle persone, utilizzata per catturare il consenso. Ma la povertà è conseguenza di un problema che va affrontato, non coccolando la condizione di rabbia di chi purtroppo sta nel disagio. Bisogna lavorare per scardinare la causa della povertà. Invece, e lo vediamo purtroppo nella programmazione economica attuale e nell’atteggiamento della politica italiana verso le grandi sfide, oggi si tende a minimizzare l’idea della libertà, ad esempio nella cultura d’impresa, e della vitalità della società. Abbandonando questi fattori, che c’entrano con il bene comune, e abbandonando il ceto medio, l’Italia sta diventando sempre meno interessante e competitiva anche in Europa. Più che portare esperienze forti, come il buon rapporto tra politiche si sviluppo e di welfare maturate, per esempio, in Lombardia, oggi portiamo tattiche politiche basate su fantomatiche alleanze di partiti sovranisti. Avremmo tanta realtà buona da raccontare e da proporre come modello, invece c’è chi alambicca su ipotesi a tavolino.
E’ per questo che il suo slogan per le prossime Europee è “Il sogno dell’Europa ha i piedi per terra”? Che messaggio vuol dare?
E’ solo partendo dalla realtà che si può costruire un modello d’Europa convincente. E’ stato così fin dall’inizio: attorno al realismo cristiano di Adenauer, Schumann e De Gasperi, che decidono di partire dal carbone e dall’acciaio, per decenni solo cause di guerre, i costruì un’ipotesi di pace e di solidità economica. Partendo da un’esigenza concreta, non da un’idea astratta, recuperarono una relazione tra Paesi e popoli fondata sulla libertà della persona e per onorare questo modello risposero alla domanda più concreta delle persone: pane e pace. Quel realismo, quei piedi ben piantati per terra sono ancora oggi lo strumento grazie al quale si può rigenerare quel modello vincente di Europa.
Faccia un esempio.
Pensi al tema del lavoro. Proprio in questi giorni, applicando un modello armonizzato di regole condivise sulle politiche del lavoro, nel settore dei trasporti siamo riusciti a evitare la concorrenza sleale operata da alcuni Paesi dell’Est, che pagando un quarto i loro trasportatori erogavano servizi a prezzi stracciati, facendo così dumping sociale. E’ un esempio concreto di cosa vuol dire rispondere ai problemi stando con i piedi per terra.
Oggi però una certa idea di Europa è entrata in crisi. Qual è la sua idea di Europa?
L’Europa che ho in mente, quindi l’Europa da ricostruire e per la quale ho lavorato in questi 5 anni, è uno spazio in cui non viene distrutta la libertà dei popoli che la compongono e non trasforma in melassa omologante questa varietà. Anzi, penso a un’Europa che ragiona per valorizzarla, facendone tesoro a tutti i livelli: culturale, sociale ed economico. Un’Europa che, mettendo a tema la libertà della persona, sia capace di star dentro la competizione globale, tenendo conto dei modelli migliori che la costituiscono: la genialità creativa degli italiani, l’efficienza dello Stato francese, la capacità industriale dei tedeschi, i modelli di welfare del Nord Europa che esprimono la forza di un intervento pubblico non lesivo delle esigenze dei cittadini e della loro libertà di scelta, come del resto siamo stati capaci di fare anche noi con il modello sussidiario adottato dalla Regione Lombardia. Questa è l’Europa da costruire.
C’è anche un’Europa da cambiare?
L’Europa smemorata e con gli occhi rivolti alla propria pancia. Non è tanto questione delle regole finanziarie, che oggi vengono ricordate come un disco rotto. Le regole finanziarie sono, appunto, la conseguenza di un’Europa senza memoria, senz’anima, perciò costretta a temporeggiare e ad attestarsi su dettagli di tipo tecnico che oltre tutto le fanno perdere competitività e autorevolezza. Invece solo un’Europa che, con onestà culturale e con chiarezza intellettuale, fa i conti con la propria storia, può diventare un’istituzione capace, al contrario di quel che accade oggi, di garantire ai suoi popoli una politica estera comune e una politica di difesa efficace, effettiva, forte.
Il 26 maggio, per la prima volta nella storia della Ue, popolari e socialisti, cioè i due raggruppamenti politici su cui si è retto in questi decenni il progetto europeo, rischiano di uscire ridimensionati, sotto l’urto delle forze emergenti del populismo e del nazionalismo. E’ una sfida nuova?
Sicuramente è una sfida. E per quel che riguarda il Ppe, è necessaria una correzione, una solida autocritica. Non basta il richiamo europeista, troppo vuoto e teorico, per tenere in vita una tradizione solida come quella dei popolari europei. Ci vuole una capacità di rispondere, oggi, alle domande più stringenti dei cittadini, con una politica efficace e culturalmente chiara.
In che senso?
Certi equilibri che hanno costretto il Ppe a perdere fette importanti di consenso non devono essere sostituiti dall’istinto e dalla reattività, che molti partiti hanno messo in campo proprio come strumenti di raccolta del consenso. Serve realismo: maggiore attenzione alle nuove domande e alle sollecitazioni attuali dei cittadini. Non ci si può sottrarre.
Qual è la prima domanda pressante dei cittadini europei?
A causa dei morsi della crisi e delle dinamiche complesse del lavoro, chiedono alla politica di cambiare. E la politica o difende se stessa o accetta la sfida, formulando proposte all’altezza. Il Ppe, che si è concentrato su un modello di Europa sconfitto perché troppo distante dalla vita dei cittadini, deve ritornare a misurarsi, immedesimandosi, con le domande dei cittadini. Una sfida che lo costringerà a recuperare la propria storia.
L’avanzata dei partiti sovranisti è anche una sfida temibile?
Il sussulto, in termini di consenso, dei partiti cosiddetti sovranisti è una sfida che non mi fa paura, perché la distruzione del progetto europeo non è sufficiente per farli stare insieme. E’ insito nel loro nome il fatto che nella realtà sia impossibile la nascita di un’internazionale dei partiti nazionalisti, perché sono strutturalmente orientati a competere tra loro, per loro natura non possono costruire un progetto condiviso e quindi non potranno costituire una reale maggioranza dentro le istituzioni europee. Noi popolari siamo pigri e smemorati, è vero, ma abbiamo una forte ragione per stare insieme. Insieme ci si mette per costruire. Il Ppe, dopo il 26 maggio, avrà numeri inferiori, ma saremo ancora la guida dell’Europa.
Che cosa glielo fa pensare?
Nel gennaio 2017 l’elezione di Antonio Tajani a presidente del Parlamento europeo avvenne grazie a un’alleanza inedita tra popolari, conservatori e liberali. Non escludo che questa maggioranza, di fatto di centrodestra, possa essere il nuovo punto di riferimento per le istituzioni europee. Anzi, credo possa essere un obiettivo da perseguire con forza, con l’obiettivo di rimettere a tema un modello di Europa più fedele alle sue origini, più attrezzata a reggere alle spinte centrifughe, più attenta a sostenere un modello di sviluppo fondato sulla capacità manifatturiera, sui produttori più che sui consumatori, su una cultura d’impresa che valorizza la creatività e l’intraprendenza delle persone. La politica deve dare dignità a chi rischia, a chi intraprende, a chi investe, a chi crea valore e lavoro. A volte, invece, un’ideologia del tutto svincolata dalla realtà ha costretto il Ppe a politiche che hanno generato molta insoddisfazione negli elettori, abituati a una forza responsabile, con i piedi per terra. Insomma, l’alleanza con conservatori e liberali, pur se non priva di rischi, ha tuttavia un potenziale interessante.
Il tema dell’austerity ha provocato una forte reazione in molti cittadini, allontanandoli da “questa” Europa. Come si vince l’austerity rilanciando la crescita?
L’alternativa all’austerity non è certamente un modello di sviluppo che alimenta la povertà e finanzia la pigrizia, né una politica che libera dal problema del lavoro, come più volte hanno detto i leader populisti in questi mesi, approvando misure come quota 100 o reddito di cittadinanza. L’alternativa all’Europa dell’austerity è l’Europa del talento. Servono due pilastri: la cultura d’impresa, intesa come rischio, come investimento sul talento della persona, e la libertà di educazione, lo strumento privilegiato per realizzarla. A tal proposito direi che quella di cui parlano i governanti attuali in Italia è una rivoluzione mancata. Come non definirla così, visto che siamo un Paese che investe oltre il 18% del Pil in pensioni e meno del 4% in educazione?
(Marco Biscella)