Da più di vent’anni, nel nostro Paese, la giustizia penale è sovraesposta e utilizzata come strumento di lotta politica e di accaparramento del consenso.

Solo così si spiega l’ultima decisione della maggioranza parlamentare che si appresta a varare il disegno di legge in materia di “Misure di contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione” in relazione al quale, come noto, è stato presentato l’emendamento governativo per l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.



L’inganno che si cela dietro gli slogan populisti che annunciano una nuova stagione della giustizia, senza più strategie dilatorie per far prescrivere i processi, garantendo l’impunità ai colpevoli, è che il vero problema, la vera anomalia italiana è la lentezza dei processi (anche e soprattutto di quelli civili, di cui nessuno parla più) e non i termini prescrizionali, di per sé molto lunghi.



Peraltro nella passata legislatura questi termini sono stati ulteriormente allungati, sia innalzando a dismisura le pene edittali dei principali reati contro la Pa (con conseguente aumento dei termini prescrizionali), sia prevedendo periodi di sospensione della prescrizione tra una fase e l’altra del processo (cfr. legge 103/2017).

Ci si dimentica che la prescrizione è un istituto di garanzia a presidio del giusto processo (e della sua ragionevole durata), previsto dall’art. 111 della Costituzione. Abolire tale istituto, anziché intervenire sulle regole processuali e le disfunzioni del sistema che determinano la patologica lunghezza dei processi, significa togliere quel presidio che, nell’attuale sistema, costituisce l’ultimo argine per non avere processi infiniti: cioè, letteralmente, che non finiscono mai.



Se si volesse veramente avere una giustizia penale celere ed efficace si dovrebbe pensare ed approntare una riforma processuale organica, sia intervenendo su alcuni passaggi chiave delle fasi processuali, oltre che investire in risorse per adeguare strutture e organici del personale amministrativo e dei magistrati: in tal modo avremmo processi che potrebbero agilmente concludersi prima dello scadere dei già lunghissimi termini prescrizionali.

Viceversa, abolire la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (senza distinguere tra condanna e assoluzione), significherà, di fatto, avere migliaia di processi i cui appelli saranno celebrati dopo molti anni, così come il successivo terzo grado avanti la suprema Corte di Cassazione, senza più neppure la responsabilità dei giudici di evitare che il processo si prescriva. Nell’attuale sistema giudiziario, i cui limiti burocratici e organizzativi sono sotto gli occhi di tutti, questa sarà l’inevitabile realtà.

Per comprendere l’assurdità, oltre che l’ingiustizia di tale abolizione, si pensi al cittadino processato e assolto in primo grado, nei cui confronti la pubblica accusa proponga appello: questo cittadino, presunto innocente e ritenuto tale, rimarrebbe imputato e sotto processo per anni, senza limite, con tutte le gravi conseguenze di questo status.

In barba alla tanto decantata civiltà giuridica italiana, si trasforma il processo stesso in pena.

L’inganno è ben congegnato da parte dell’attuale Governo: prevedere l’abolizione dopo la sentenza di primo grado a partire dal gennaio 2020 per mantenere il consenso, così prezioso in vista dell’appuntamento elettorale europeo, annunciando altresì una fantomatica riforma di accelerazione dei processi che, sia consentito il legittimo sospetto, se veramente si volesse fare, non avrebbe senso abolire l’attuale istituto della prescrizione, ampiamente sufficiente a garantire la celebrazione di processi di ragionevole durata.

La verità è che questa maggioranza, caratterizzata da un’evidente connotazione populista, utilizza e strumentalizza la giustizia penale proclamando riforme che catturano l’immediato consenso di una parte della popolazione che non è in grado di comprenderne gli effetti destabilizzanti sugli equilibri e i meccanismi del sistema.

Si collocano in quest’ottica la proclamata riforma della legittima difesa, il ddl cosiddetto “spazzacorrotti”, il cosiddetto “Decreto sicurezza”, la non approvazione della riforma Orlando sulle condizioni di vita carceraria, con un più adeguato percorso di espiazione della pena, attraverso un maggiore accesso alle misure alternative.

Inutile dire che le emergenze del Paese in questo momento sono altre, ma la sconcertante improvvisazione dei nostri governanti, che sta trascinando l’Italia in una profonda crisi annunciata, è in parte mitigata e nascosta da questi provvedimenti che, solo apparentemente, fanno sentire più al sicuro una parte della cittadinanza.

Ecco l’utilizzo improprio, strumentale e politico della giustizia penale: ecco l’inganno!