Al tramonto di una domenica di ordinaria follia Matteo Salvini non ce la fa più e sbotta nei confronti degli alleati 5 Stelle: “Tappatevi la bocca, basta odio”. E aggiunge: “Questo è l’ultimo avvertimento”. Dopo ore di botta e risposta continui sembra davvero che il livello di guardia sia arrivato. Ma non è affatto detto che sia così.
L’impressione che danno i duellanti di Palazzo Chigi è che sia in corso la ricerca del punto massimo di sopportazione dell’altra parte. Un bombardamento incrociato su ogni questione, dal taglio delle tasse alla liberalizzazione delle droghe, dal grembiule obbligatorio a scuola alle province, dai compensi di Fabio Fazio in Rai sino alla flat tax da fare al più presto. Parole roboanti, soprattutto – va detto – da parte dei pentastellati. Che sul caso del sottosegretario Armando Siri si sentono in vantaggio, dal momento che possono brandire la questione morale come un’arma di distruzione di massa. E mettere il capo leghista all’angolo, cosa successa di rado.
La sfida celodurista a Salvini (“tiri fuori le palle, e lo faccia dimettere”) sembra fatta apposta per fare saltare i nervi al ministro dell’Interno. Che per ora non abbocca, fa esercizio zen, ma ha davanti un bivio. Solo le dimissioni anticipate potrebbero evitare uno show down nel Consiglio dei ministri previsto in settimana.
Sinora Salvini ha spiegato che non intende abbandonare chi ha fatto un lungo tratto di strada con lui e ha chiesto di attendere almeno il rinvio a giudizio. Si tratta, in apparenza, di un discorso garantista e di buonsenso. Peccato che ai grillini interessi solo impossessarsi dello scalpo dell’economista targato Lega. A questo punto le strade sono tre: o dimissioni in extremis, o disertare il Consiglio dei ministri, oppure una conta, ben sapendo che non solo sarebbe perdente (i ministri M5s sono di più), ma che certificherebbe anche e senza ombra di dubbio le distanze siderali fra i due partner di governo.
Ha un bel dire Di Maio che una spaccatura intorno al grande tavolo rotondo di Palazzo Chigi non significherebbe automaticamente la crisi di governo. Il crac dell’esecutivo sarebbe nei fatti. Una crisi formale prima del voto europeo non farebbe l’interesse né dei pentastellati, né del Carroccio, ma il rischio che si apra quasi per forza d’inerzia è concreto.
Dentro la Lega il fronte dei tifosi della fine dell’esperienza di governo giallo-verde aumenta di giorno in giorno. Quasi tutti gli esponenti storici non ne possono più. Il più esplicito il governatore veneto Luca Zaia, che ha perso la pazienza aspettando il via libera all’autonomia differenziata, che i grillini, dice, stanno sabotando ad arte. Più prudente nelle parole, ma critico per le stesse ragioni il collega lombardo Attilio Fontana. E nello stato maggiore “romano” a non poterne più dei 5 Stelle e delle loro bizze sono in tanti, dal capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari a esponenti in forte crescita come Alessandro Morelli (presidente della commissione Trasporti e uomo chiave della partita Rai), a Edoardo Rixi, vice di Toninelli alle Infrastrutture. Anche ministri come Gianmarco Centinaio e Lorenzo Fontana sarebbero lieti di una rottura definitiva.
Il personaggio più influente rimane però Giancarlo Giorgetti, che certo con i 5 Stelle non va d’amore e d’accordo. Non ha mai fatto sconti agli alleati, combatte quotidianamente su ogni singolo dossier, ha manifestato molti segni d’insofferenza. Il suo parere è destinato a pesare, ma l’ultima parola spetterà a Salvini. Certo, non si può rompere sulla questione morale, sarebbe una catastrofe dal punto di vista dell’immagine e quindi del consenso. Ma ragioni più nobili abbondano, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Scollinato in qualche maniera il caso Siri, saranno i risultati delle elezioni europee a decidere i nuovi equilibri politici, dentro e fuori il governo. In quel momento verranno al pettine anche i nodi oggi messi da parte, come la manovra economica da lacrime e sangue che attende il paese. La propaganda non basterà più, bisognerà fare scelte chiare.