Bisogna ammettere che nell’osservazione di Luigi Di Maio c’è del buonsenso: voler trasformare le elezioni in un referendum pro o contro se stessi di solito non porta bene. E il caso Renzi è lì a ricordarcelo. Dietro la sparata di Matteo Salvini ci sono però ragioni che diventano giorno dopo giorno più evidenti.
Il leader della Lega è diventato l’uomo da battere (e da abbattere), lo spauracchio di una certa sinistra, che sta montando un’intensa campagna mediatica, tesa a sbarrare a Salvini una strada che sembrava trionfale. A capitanare quest’operazione il quotidiano Repubblica, seguito in modo più o meno tiepido da molte altre illustri testate. Principali beneficiari i 5 Stelle, che nella grande stampa stanno trovando un’insperata cassa di risonanza alla controffensiva mediatica in atto da circa due mesi.
Paga dal punto di vista del consenso controbattere colpo su colpo all’alleato leghista? Parrebbe di sì, visto che venerdì scorso è calato il silenzio sui sondaggi elettorali con uno scenario di Lega in sensibile calo e pentastellati in significativo recupero. Salvini paga oltremisura l’aver traccheggiato troppo sul caso Siri. La lealtà verso l’ormai ex sottosegretario, uno dei primi ad aver creduto in lui cinque anni fa, rischia di costargli cara, perché la questione morale rimane un terreno scivoloso, e il garantismo non porta voti. Cedere più celermente non avrebbe evitato la sconfitta, ma ne avrebbe attutito gli effetti negativi, anche perché in contemporanea il duo Di Maio-Conte non ne ha più lasciata passare una.
Effetto del braccio di ferro intorno a Siri è stato il logoramento del rapporto fiduciario fra i due vicepremier che sinora ha tenuto insieme la maggioranza. Se fosse per la stragrande maggioranza dei colonnelli leghisti la crisi di governo sarebbe stata aperta da tempo, e c’è chi dice che la Tav a marzo fosse un rigore a porta vuota che Salvini ha scientemente deciso di sparacchiare in tribuna. In un partito iper-verticistico come la Lega la parola del leader è l’unica che conta, e due mesi fa Salvini ha mostrato di essere ancora convinto di essere nella condizione di accrescere ulteriormente il consenso rimanendo al governo. Sin qui i fatti sembrano smentirlo, anche se l’ultima parola verrà detta con il voto europeo (e di 3.783 comuni, oltre alla regione Piemonte). Il guaio è che alle elezioni mancano ancora due settimane e l’impressione è che i toni dello scontro fra Lega e M5s siano destinati – se possibile – a crescere ancora.
Sino a dove? La domanda è legittima, ma la risposta la conoscono solo i due protagonisti. Di Maio sembra intenzionato a non dare tregua all’amico/rivale, e lo attacca sulla possibilità di un ritorno di fiamma con Berlusconi, che se non è una fake news poco ci manca: Salvini ha in mente un centrodestra senza l’ex Cavaliere, ma se nel voto le cose dovessero andare maluccio (sotto il 30% per intenderci) potrebbe decidere di tornare ad Arcore proprio per farla pagare a Di Maio. Non he ha voglia, ma potrebbe cioè essere costretto a tornare al centrodestra old style.
È questo l’obiettivo di Di Maio? Molto dipende dall’esistenza o meno di un’alternativa, che non può che essere il ritorno al dialogo con il Pd. E’ un’ipotesi di cui è però lecito dubitare, visto che viene autorevolmente stoppata dal numero uno del Pd, Zingaretti, che ripete in continuazione come in caso di crisi di governo la soluzione corretta sia ridare la parola agli italiani.
Salvini lo sa, e intende andare avanti dritto per la sua strada, con l’approdo in Consiglio dei ministri del decreto sicurezza bis e della flat tax. Di Maio risponde con il conflitto d’interessi, per depennare per sempre Berlusconi dalla politica italiana. I due fanno entrambe le parti in commedia, maggioranza e opposizione insieme, le due opposizioni vere stanno a guardare.
Dopo il 26 maggio tutto è possibile, compreso che si precipiti verso il voto anticipato, ma con un occhio al calendario: dopo aver tentato un governo di servizio alla Cottarelli, l’unico timing che Mattarella accetterebbe è di sciogliere le Camere a fine luglio per votare entro inizio ottobre. È l’unico modo di avere in tempo utile un governo in carica per fare la legge di bilancio dura che ci chiedono i conti pubblici claudicanti e l’Europa. Dopo il 26 maggio il tema vero sarà quello.