In Europa tira una preoccupante aria antifamilista. Il governo spagnolo ha irrogato una sanzione pecuniaria di 100.000 euro ad un’associazione cattolica denominata Intereconomía Corporación, che si occupa di comunicazione multimediale, per aver mandato in onda una campagna pubblicitaria televisiva in difesa dei valori legati al concetto tradizionale di famiglia.
Ciò che è stato ritenuto intollerabile dagli occhiuti censori ispanici del politically correct, è che l’immagine pubblicitaria, trasmessa 273 volte, mostrasse la scena di un gruppo di omosessuali durante la parata di un Gay Pride, e ponesse ai telespettatori una serie di domande, del tipo: «E’ questo il modello di società che desiderate?», «E’ questo l’esempio che vorreste per i vostri figli?». Inevitabile che venisse invocata la mannaia della legge spagnola che vieta forme comunicative discriminatorie basate su razza, sesso, nazionalità, religione ed opinione. Con buona pace del diritto di opinione dell’associazione cattolica multata.
La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, peraltro, ha più volte affermato che la libertà di espressione rappresenta un pilastro essenziale di una società democratica, e che tale libertà non si applica solo alle idee condivisibili da tutti o ritenute inoffensive, ma anche ad espressioni che possono irritare, scioccare, dispiacere le autorità pubbliche o altri gruppi della popolazione. Anche la Corte Suprema della laicissima Francia, per esempio, con la recente sentenza n.7-83.398, ha stabilito, nel caso Vannest contro l’Associazione Act Up Paris, che l’affermazione secondo cui l’omosessualità è una condizione inferiore all’eterosessualità, non eccede i limiti della libertà di espressione.
In realtà, è proprio l’idea di difendere la famiglia tradizionale che è stata colpita dal provvedimento del governo socialista spagnolo. E non è soltanto una questione politica, poiché l’attacco alla famiglia in Europa sta assumendo, purtroppo, dimensioni trasversali. Mi viene in mente l’ultima trovata dell’impareggiabile Boris Johnson, sindaco conservatore di Londra, che lo scorso 3 luglio si è fatto vedere, sorridente e festante, alla testa del Gay Pride, in occasione del 40° anniversario del Gay Liberation Front (GLF), organizzazione che propugna l’eliminazione della famiglia.
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Nel 1971 il GLF, allora considerato fuori legge, pubblicò un manifesto in cui si teorizzava lo sradicamento e l’abolizione dell’odiato istituto, identificato come la condizione di «un uomo in catene, di una donna schiava e di figli costretti a subire quei modelli». Da qui l’esigenza di una «cultural revolution» per archiviare definitivamente dalla storia dell’umanità l’idea stessa di famiglia.
Neppure la Chiesa veniva risparmiata dagli strali del manifesto, perché si imputava proprio agli «arcaici ed irrazionali insegnamenti» del cristianesimo la definizione regressiva e oscurantista del concetto di famiglia e di matrimonio. L’ignoranza gioca sempre brutti scherzi. Se gli attivisti del GLF si fossero informati, avrebbero scoperto che famiglia e matrimonio sono istituti ben antecedenti all’avvento del cristianesimo, e che le evolute civiltà classiche già ne conoscevano l’importanza.
L’idea che la famiglia fosse considerata una cellula della società e che il matrimonio fosse l’unione di un uomo e di una donna finalizzata alla procreazione, si perde nella notte dei tempi della civiltà umana. Se avessero studiato, gli stessi militanti del GLF, avrebbero saputo che gli unici due tentativi di abolire la famiglia attuati nella storia recente (il codice di famiglia sovietico del 1918 e l’organizzazione sociale dei kibbutz israeliani) si sono rivelati un tragico fallimento, al quale è stato subito posto rimedio.
Non è davvero soltanto una questione di fede. Il cristianesimo si è semplicemente limitato a riconoscere e valorizzare ciò che la ragione umana ha sempre percepito come un ineludibile fattore positivo. La famiglia come luogo dell’educazione all’appartenenza e al rapporto con l’altro, resta un elemento imprescindibile per la stessa coesione sociale dell’umanità.