Una recente indagine IARD-SWG spiega, in termini numerici, quanto la bioetica funga da spartiacque tra credenti e non credenti. Si scopre così, ad esempio, che l’88% dei non credenti si dichiara favorevole all’eutanasia, mentre soltanto il 29% dei cattolici praticanti accetta l’idea della dolce morte. Non cambia sostanzialmente la situazione in tema di aborto. Favorevoli l’87% dei non credenti e tendenzialmente contrari i cattolici praticanti, tra i quali solo il 22% esprime un consenso all’interruzione volontaria di gravidanza.



A favore della fecondazione assistita eterologa, invece, si schiera il 77% degli atei, mentre tra i cattolici praticanti solo il 31% la dichiara ammissibile. Interessante è il fatto che le opinioni degli agnostici non siano poi così lontane dai credenti che non si riconoscono in una chiesa e dai non praticanti. Le percentuali, ad esempio, di quanti dicono sì all’aborto, all’eutanasia e alla fecondazione assistita eterologa, tra gli agnostici, vanno dal 56 al 78%.
C’è, invece, un tema su cui la maggioranza degli intervistati, indipendentemente dalla propria appartenenza religiosa, si dice contraria. Si tratta della pena di morte. La quota più elevata di assensi emerge tra i cattolici non praticanti (36%), mentre per tutti gli altri si aggira attorno al 20%.



Il commento dell’indagine giunge alla conclusione che «tra gli atei è radicata l’opinione che l’uomo sia l’artefice unico delle proprie scelte e che spetti appunto ai singoli individui prendere decisioni anche in materia di vita e di morte». La considerazione non è nuova e non aggiunge molto a quello che già si conosceva. Consente semmai di confermare quanto una prospettiva antropocentrica possa incidere nel campo della bioetica. L’individuo eretto a parametro morale di se stesso diventa artefice del proprio destino, faber suae quisque fortunae, padrone assoluto della propria esistenza. Si comprende bene anche l’opinione sulla pena di morte.



In realtà non vi è alcuna contraddizione da parte dei non credenti. La prospettiva antropocentrica, infatti, pretende che sia lasciata all’individuo e soltanto all’individuo la disponibilità della propria esistenza. Nella pena di morte, invece, la decisione ultima appartiene allo Stato. Ciò spiega come molti militanti in favore dell’eutanasia – ad esempio i radicali italiani – siano al tempo stesso strenui oppositori della pena di morte. Per essi, infatti, soltanto l’individuo nella sua piena autodeterminazione può stabilire quando cessare di vivere e nessun’altra autorità – che si chiami Stato o Dio è indifferente – può arrogarsi il diritto di farlo al posto suo.

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 Il fatto è che la bioetica, oggi, è diventata un campo primario e cruciale della lotta culturale tra relativismo etico e responsabilità morale dell’uomo. Si tratta, come ricordava Benedetto XVI, di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Si impone un aut aut decisivo, la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza. Ma è proprio la razionalità immanente dell’uomo, che pretende di essere misura di tutte le cose, a rischiare di apparire irrazionale, giacché giunge ad implicare un rifiuto deciso del senso e del valore della realtà. Non a caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l’essere e come dal caso sia nata l’intelligenza.

La visione dell’individuo artefice del proprio destino, in realtà, lascia senza adeguata risposta i quesiti più profondi dell’animo umano. Infatti, è soltanto attraverso l’apertura al mistero di Dio, puro Amore, che può colmarsi la sete di verità e di felicità del cuore dell’uomo. E solo la prospettiva dell’eternità riesce a conferire valore autentico alla realtà, alla Storia e soprattutto al mistero della fragilità umana, della sofferenza e della morte. Senza questa prospettiva l’uomo è destinato a smarrirsi.

In un interessante saggio del filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, intitolato After virtue, la visione antropocentrica moderna viene contrapposta all’etica aristotelico-cristiana. MacIntyre paragona l’attuale società, in cui domina un esasperato soggettivismo ed una visione totalmente relativistica dell’etica, a quella che ha visto il tramonto dell’impero romano. Allora – secondo MacIntyre – fu la geniale intuizione di San Benedetto, alla luce dell’originale apporto del cristianesimo, a recuperare l’etica delle virtù praticata nella polis aristotelica, mentre fu proprio l’epoca moderna a mutare radicalmente la Weltanschauung benedettina, introducendo la visione illuminista di uomini separati e soggetti astratti. Visione totalmente opposta alla prospettiva di una società fondata su una dimensione comunitaria e unita da valori universalmente condivisi.

La pretesa di rendere l’uomo artefice del proprio destino, padrone di sé e del mondo, ha finito per distruggere la società. Lo spiega bene MacIntyre: «L’Io specificamente moderno, nell’acquistare la sovranità nel suo proprio reame, ha perduto i confini tradizionali che gli erano stati forniti da un’identità sociale e da una visione della vita come processo orientato verso un fine prestabilito». L’individuo sprofonda in una drammatica dimensione di solitudine e tenta disperatamente di trovare in se stesso una dimensione trascendente. La tentazione di sostituirsi a Dio, del resto, è antica quanto l’uomo.

 

 

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Riecheggia nelle parole del tentatore: «Eritis sicut dii», come nel mito di Prometeo. L’eterna tentazione di impadronirsi del segreto del fuoco sottraendolo agli dei, perché essi non possano più dominare l’uomo in virtù della supremazia dovuta al possesso esclusivo di quel segreto.

Ricordo di aver letto che proprio Karl Marx, quintessenza della modernità fino al delirio dell’ideologia che porta il suo nome, nella sua tesi di laurea in filosofia, conseguita il 15 aprile 1841 presso l’Università di Jena, dal titolo Differenz der demokritischen und epikurischen Naturphilosophie nebst einem Anhang (Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro con un’appendice), cita espressamente il verso del poeta greco Eschilo in cui il titano Prometeo, dopo il sacrilego furto del fuoco, afferma: «Io odio tutti gli dei». «La confessione di Prometeo», commenta Marx, «è la confessione della filosofia, il suo verdetto contro tutti gli dèi celesti e terrestri che non riconoscono l’autocoscienza umana come la deità suprema».

Epicuro è presentato da Marx come «il più grande illuminista greco», come colui che portò fino in fondo la critica della religione a favore dell’autocoscienza umana. E se ci fossero dubbi sulla prospettiva prometeica di Marx, basterebbe leggere la sua poesia giovanile intitolata Menschenstolz, orgoglio umano: «Sdegnosamente, getterò il mio guanto / in faccia al mondo / e vedrò crollare questo gigante pigmeo / la cui caduta non spegnerà il mio ardore. / Poi come un Dio vittorioso andrò alla ventura /fra le rovine del mondo / e, dando alle mie parole potenza di azione, / mi sentirò uguale al Creatore».

 

Tutti sappiamo quale sia stata la “potenza creatrice” di Marx, e quali siano stati gli effetti devastanti che ha lasciato nella Storia dell’umanità. Ogniqualvolta l’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio ha lasciato dietro di sé soltanto rovine, polvere e cenere. Ma questa – ahimè – è una lezione che l’umanità si ostina a non voler imparare.

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