Due studi pubblicati dal prestigioso Canadian Medical Association Journal (CMAJ) hanno rivelato che in Belgio la metà circa dei procedimenti di eutanasia praticati nei confronti di malati terminali avverrebbe senza il consenso dei pazienti, e che in molti casi sono le stesse infermiere, al posto dei medici, a dare la dolce morte, anche quando non è richiesta.
I dati scuotono l’opinione pubblica e il mondo si interroga scioccato su un fatto che, in fondo, era facilmente prevedibile. Anzi, direi scontato. Una volta attraversato il Rubicone della legalizzazione, il passo verso l’eutanasia non volontaria è assolutamente breve. Un passo quasi inevitabile e non sempre indotto da ragioni nobili. Mi sono preso la briga di leggere attentamente i due studi pubblicati dalla CMAJ.
Il primo, denominato «La morte medicalmente assistita secondo la legge belga: una ricerca statistica nella popolazione» (DOI:10.1503/cmaj.091876) mostra un dato allarmante: su 208 decessi per eutanasia, 142 sono risultati consenzienti, e 66 privi di una preventiva autorizzazione da parte del paziente. Un elemento interessante emerge dall’analisi dei casi di eutanasia non volontaria. Soltanto nel 22,1% di essi, infatti, è stata almeno intavolata una discussione sulla possibilità di porre fine alla vita. Nei casi in cui, invece, tale discussione non vi è stata, i medici hanno specificato che le ragioni del mancato confronto con gli interessati erano dovute al fatto che si trattasse di pazienti in stato comatoso (70,1%), o affetti da demenza (21,1%), oppure di pazienti che avevano precedentemente espresso una volontà verbale di morire (40,4%), circostanza, quest’ultima, che non può considerarsi come valido consenso.
Altre ragioni sulla mancata discussione preventiva sono state individuate dagli stessi medici nel fatto che la decisione di effettuare l’eutanasia corrispondesse comunque, secondo il loro giudizio professionale, al “best interest” del paziente (17,0%), e perché lo stesso fatto di affrontare l’argomento sarebbe stato dannoso per lo stato psicofisico del malato (8,2%).
Il secondo studio del CMAJ, intitolato «Il ruolo delle infermiere nella morte assistita in Belgio» (DOI:10.1503/cmaj.091881) mostra che 248 nurse, un quinto circa di tutte le infermiere belghe, hanno praticato l’eutanasia, in violazione della legge che in quel Paese riserva esclusivamente al medico tale operazione. Il dato interessante è che di quelle 248, ben 120 hanno agito senza il consenso espresso del paziente.
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Per avere un’idea numerica delle dimensioni della questione basti pensare che in Belgio, da quando è entrata in vigore la legge che ha legalizzato l’eutanasia, otto anni fa, i soggetti eliminati a seguito di tale pratica rappresentano il 2% di tutti i decessi della popolazione belga, raggiungendo la cifra di circa 2.000 all’anno.
Per comprendere, poi, quali possano essere i rischi di ordine etico di una simile deriva, basti considerare, tra le altre cose, che un mese fa Wesley Smith, bioeticista e Senior Fellow al Discovery Institute di Washington, lanciò un allarme proprio su un caso di eutanasia accaduto in Belgio. A una donna paralizzata fu fatto firmare un atto di consenso all’espianto dei propri organi, solo dieci minuti prima che il suo cuore si fermasse per effetto della letale iniezione intravenosa. A quella donna, che non era una malata terminale, sono stati prelevati fegato e reni, subito dopo il decesso avvenuto per eutanasia.
Questa del prelievo post-eutanasico di organi rappresenta una deriva pericolosissima, se si collega al dato emerso dai due citati studi del CMAJ. Si aprono, infatti, scenari inquietanti, ad esempio, sulla liceità di utilizzare organi di soggetti che, pur essendosi in vita dichiarati donatori, sono poi deceduti per eutanasia non volontaria, ovvero condannati a una morte non richiesta.
Ma anche senza arrivare a simili casi estremi, il rischio che si corre è quello che la società cominci a guardare ai soggetti più deboli e indifesi non solo come un peso (per se stessi, per le famiglie e per la società) ma anche come oggetto di una possibile attività di sfruttamento, una potenziale riserva di organi umani da destinare a chi più di loro merita di vivere.
«Il prelievo di organi da chi è stato sottoposto ad eutanasia», ha affermato Wesley Smith, «introduce la prospettiva assolutamente realistica per cui persone disperate a causa di una malattia terminale o di una grave disabilità (o, forse, semplicemente disperate) potrebbero aggrapparsi all’idea di essere uccisi per consentire il prelievo dei loro organi, come un modo per dare un senso alla propria esistenza».
Una volta che passi il messaggio culturale – trasmesso da esimi luminari, da prestigiosi giornali medici, da coniugi, parenti, amici – per cui l’uccisione di un uomo può assumere una valenza positiva se serve a salvare altri essere umani, allora significa che il limite tra la civiltà e la barbarie è già superato.
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Tutto ciò prova ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, il fatto che la legalizzazione dell’eutanasia determini non solo la perdita della necessaria fiducia da parte dei pazienti nei confronti dei medici, ma apra anche la strada a ogni sorta di abusi e ingiustizie, specialmente a svantaggio dei più deboli. Ciò che sta accadendo in Belgio dimostra che il passaggio dall’eutanasia all’omicidio degli indifesi è un processo pressoché ineluttabile.
Non c’è nulla da fare: in tema di vita e di morte non sono possibili compromessi al ribasso, né giova scendere a patti col Male. «Nolite locum dare Diabolo», ammoniva San Paolo.
Chi si illudeva che la Legge 194 avrebbe limitato il ricorso all’aborto – accettando tale normativa come male minore -, è stato smentito dall’utilizzo strumentale del concetto di “tutela della salute psichica della donna”, che ha concesso a quest’ultima un pieno e assoluto diritto di vita e di morte nei confronti del nascituro.
Chi si illudeva che la Legge 40 avrebbe limitato gli abusi della fecondazione assistita – accettando tale normativa come male minore -, è stato smentito dagli interventi giurisprudenziali di magistrati eugenisti, che stanno smantellando ciò che di positivo poteva contemplare quella legge.
Chi si illudeva che la somministrazione della pillola abortiva RU486 sarebbe avvenuta con ricovero in una struttura sanitaria pubblica – accettando l’applicazione della Legge 194 come male minore -, è stato smentito dal riconoscimento alla donna del diritto al rifiuto delle cure ospedaliere, che ha portato, di fatto, all’aborto a domicilio. E potremmo continuare.
C’è, ora, qualcuno in Italia davvero disposto a credere che simili illusioni non sarebbero valse anche per l’eutanasia? Se c’è, guardi cosa sta accadendo in Belgio.