Tre uomini e tre donne completamente nudi e con la testa di animali. È questa l’ultima provocazione firmata Oliviero Toscani per pubblicizzare una nota marca di cibi per cani e gatti. La cosa non poteva passare inosservata. E lo sanno bene i promotori che proprio sull’effetto shock hanno imbastito lo scandaloso battage.
Un’indignata cittadina milanese protesta contro il cartellone pubblicitario, che definisce «da guardoni», scrivendo al direttore di Avvenire, il quale risponde precisando di sentirsi «offeso e preso in giro non solo da chi premedita campagne pubblicitarie come quella, ma anche e soprattutto da chi ha potere di governo amministrativo e consente che una tale “violenza” si consumi sui muri di Milano e di tante altre nostre città». Conclude: «Gridi pure chi vuole alla “censura”, l’unico scandalo – qui – è la sconcia pretesa di gabellare la pornografia per espressione di libertà». Sacrosante parole. Quello che però ha urtato maggiormente la mia personale sensibilità non è stato soltanto l’utilizzo gratuito e voyeuristico della nudità. Tra l’altro, l’immagine non riesce a trasmettere nulla di particolarmente sensuale o provocante. Si tratta di semplici corpi denudati. Carne esposta in macelleria.
Il messaggio più trasgressivo è, invece, quello di voler parificare la dignità degli esseri umani con quella degli animali. Operazione culturale in atto da tempo.
Non è una coincidenza, peraltro, il fatto che solo qualche giorno fa la Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) abbia diramato una nota, alquanto critica, in merito ad un progetto di direttiva dell’Unione europea sulla protezione degli animali utilizzati nelle sperimentazioni di carattere scientifico.
Pur condividendo, in linea di principio, lo spirito dell’iniziativa, i presuli europei denunciano il fatto che in quella bozza di direttiva si insinui surrettiziamente il rischio di «cancellare la differenza tra l’animale e l’uomo». Preoccupa, in particolare, l’art. 4, paragrafo 1, del testo, il quale prevede che, al fine di proteggere gli animali, «si adottino, ove possibile, metodi scientifici o sistemi di sperimentazione, che non implichino l’utilizzo di animali vivi».
Dove stia il pericolo, lo precisa la nota della COMECE, spiegando che una formulazione così generica del testo potrebbe consentire, per esempio, sperimentazioni che utilizzino cellule staminali embrionali umane. La conseguenza è che «alcuni Stati membri, che non hanno una legislazione specifica in ordine alle cellule staminali embrionali umane, potrebbero vedersi costretti, in base alla direttiva, ad applicare metodi di sperimentazione che implichino l’utilizzo di tali cellule, nonostante sussistano al riguardo non poche perplessità di carattere etico».
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Da qui la denuncia della COMECE, secondo cui la politica europea sulla protezione degli animali rischia di cancellare la differenza fondamentale tra gli stessi animali e la dignità dell’uomo. Affinché tale rischio venga scongiurato, la COMECE chiede, sempre nella predetta nota, che il Consiglio voglia «escludere esplicitamente dai metodi alternativi di sperimentazione tutti quelli che implichino l’uso di cellule embrionali e fetali umane, nel rispetto delle competenze degli Stati membri in ordine alle proprie decisioni etiche». La stessa COMECE arriva, inoltre, a chiedere «al corpo legislativo dell’Unione europea e alla Commissione di avviare un dibattito onesto e aperto sia sulle alternative scientifiche (come ad esempio l’utilizzo di altre cellule staminali umane, non embrionali), sia su una questione etica fondamentale, qual è quella di sapere se la nostra società intende distruggere e strumentalizzare embrioni umani per ridurre il numero di esperimenti scientifici sugli animali».
Come si vede, quindi, il manifesto pubblicitario di Toscani racchiude in sé qualcosa di assai più scandaloso della semplice indecenza.
Questo subdolo tentativo di parificazione tra uomo ed animale mi ha fatto venire in mente un ottimo articolo di Francesco Agnoli, apparso il 26 aprile 2007 sul Foglio, in cui il giornalista raccontava di una mostra allestita al Museo di Scienze Naturali di Trento, dal titolo “La scimmia è nuda”, e dall’intento dichiaratamente evoluzionista.
In quel contesto, infatti, veniva propinata l’idea che le scimmie avessero una vita sociale ed affettiva simile alla nostra, che possedessero una forma di cultura e di espressione artistica molto meno primitiva di quanto si possa immaginare, e che arrivassero anche ad intendersi di medicina. L’etologo Frans de Waal spiegava di aver persino rinvenuto i fondamenti della morale in varie specie di scimmie. Non ha fornito al riguardo la benché minima prova scientifica, ma l’eccezionale scoperta è stata sufficiente per dimostrare che la religione, in realtà, non è altro che una graziosa historiette inventata dagli uomini.
È seguito il consueto refrain della scimmia che condivide con l’uomo il 98 per cento del patrimonio genetico, senza che però venisse data alcuna giustificazione plausibile di come possano stare in quella piccola differenza del due per cento di Dna, e solo in essa, tutte le caratteristiche tipicamente umane, quali linguaggio, pensiero, autocoscienza, libertà, conoscenza, creatività.
Sempre Agnoli ricorda, in quel suo articolo, anche le grandi intuizioni metafisiche di Desmond Morris, il nume tutelare della mostra, uno capace di sostenere quanto segue: «la questione della sede dell’anima è stata a lungo dibattuta. Sarà nel cuore o nella testa, o magari diffusa in tutto il corpo, come una qualità spirituale omnipervasiva, propria dell’essere umano? A me, come zoologo, sembra che la risposta sia ovvia: l’anima dell’uomo si trova nei suoi testicoli, quella delle donne nelle ovaie».
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Con tutto il rispetto per le profonde riflessioni del prof. Morris, il sottoscritto ritiene – a costo apparire un retrogrado parruccone cattolico – che nell’uomo ci sia, invece, qualcosa di misterioso, un imperscrutabile quid, quello che il grande Romano Guardini definiva «un’aura di eternità». Io mi ostino a ritenere, nel mio retrivo oscurantismo, che la conoscenza umana sia diversa dalla mera percezione animale, poiché si esprime attraverso una compiuta elaborazione intellettuale capace di individuare e comprendere il senso ultimo della realtà.
Mi ostino a ritenere che la libertà umana sia diversa dalla cieca obbedienza all’istinto animale, perché la libertà è per l’uomo la possibilità, la capacità, la responsabilità di compiersi, ovvero di raggiungere il proprio destino, attraverso una cosciente autonomia decisionale.
Mi ostino a ritenere che la creatività umana si distingua nettamente dalla semplice “produzione” del mondo animale, in quanto è espressione di un’intelligente energia interiore, di una tensione spirituale e non della reduplicazione d’uno schema insito nell’istinto vitale, come è, ad esempio, l’alveare per l’ape.
Ma io mi ostino innanzitutto a ritenere che non esista un uomo che non sia contemporaneamente un “Io”. Quando chiediamo: «Chi è là?», o domandiamo: «Chi ha fatto questo? », la risposta che otteniamo è: «Io», o se si intende essere più precisi: «Io, nome e cognome».
L’uomo, a differenza dell’animale, è un Io autocosciente, capace di entrare in relazione con un Tu assoluto ed infinito. Ogni uomo, sostiene Guardini, è posto da Dio quale suo “Tu”, anzi «Dio è quell’Essere che è capace di fare di ogni uomo il “Tu”».
Si può ancora davvero pensare che l’uomo sia solo il mero risultato di una catena evolutiva, un animale un po’ più intelligente di altri animali?
A questa domanda risponde, con la sua consueta sagacia, l’ironico Chesterton: «Se l’uomo fosse un prodotto ordinario dell’evoluzione biologica, come tutti gli altri animali, sarebbe ancora più straordinario il fatto di non essere uguale agli altri animali. Così com’è, semplice creatura naturale, l’uomo appare quasi più soprannaturale di quanto sarebbe se fosse davvero una creatura soprannaturale». Con buona pace degli ultradarwinisti.