Un fenomeno preoccupante sta dilagando nelle carceri britanniche. A lanciare l’allarme è il rapporto intitolato Muslim Prisoners’ Experiences, redatto da Ann Owers, Ispettore Capo degli Istituti Penitenziari, sulla base di 85 indagini ispettive. Da quel documento emerge come ben il 30% dei detenuti musulmani radicalizzi la propria fede religiosa durante la permanenza in carcere, e come l’islam riesca a diffondersi in proporzioni esponenziali.
Il numero dei detenuti musulmani è drammaticamente lievitato dalla metà degli anni ’90, passando dai 2.513 del 1994 (pari al 5% della popolazione carceraria), agli attuali 10.300 circa. Praticamente quadruplicato. In alcune delle carceri di massima sicurezza la presenza della popolazione musulmana è notevolmente al di sopra della media. Due anni fa, per esempio, i detenuti musulmani rappresentavano circa un terzo di tutti i detenuti del supercarcere di Whitemoor, nel Cambridgeshire, e un quarto dei detenuti del supercarcere di Long Lartin, nel Worcestershire. Ma interessante è l’analisi delle cause legate al fenomeno delle conversioni.
Una delle principali ragioni indicate nel rapporto Owers risiede nel fatto che i detenuti musulmani possano godere della protezione di una vasta e forte comunità all’interno delle strutture penitenziarie. La conversione consente, infatti, di realizzare il naturale bisogno – amplificato nel contesto restrittivo del carcere – di appartenenza ad un gruppo distinto da un profondo tratto identitario. Eloquente, a tal proposito, appare la dichiarazione, contenuta nel rapporto, di un detenuto convertito: «Ora ho un gran numero di fratelli che sento davvero vicini. Noi mettiamo in comune le nostre esistenze e ci proteggiamo a vicenda». Tom Robson, vice presidente del Prison Officers’ Association, ha spiegato come molti detenuti che vivono con particolare fragilità psicologica l’esperienza carceraria, diventino in realtà facilissime prede degli imam carcerati. «Quello che registriamo al momento», ha precisato Robson, «è un trend in crescita secondo proporzioni davvero preoccupanti».
Una seconda ragione, più prosaica ma non meno importante nel contesto carcerario, è quella dell’alimentazione. A tutti i detenuti islamici, infatti, è offerto il cibo halal, secondo le prescrizioni coraniche, che è ritenuto, a ragione, decisamente migliore della solita sbobba somministrata ai detenuti non musulmani. Inoltre, in occasione del ramadan, il vitto concesso agli islamici provoca, a buon diritto, l’invidia di tutti gli altri ospiti degli istituti penitenziari. Anche a tal proposto, appaiono indicative le parole di un detenuto convertito, riportate nel rapporto Owers: «Pure il cibo buono, all’inizio, è stato uno dei motivi che mi ha spinto ad abbracciare la nuova fede».
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Una terza causa di attrazione dell’islam viene identificata in un altro privilegio concesso ai musulmani: quello di essere esonerati da ogni attività lavorativa e dai corsi rieducativi, in occasione delle preghiere del venerdì. Tale pratica religiosa, peraltro, offre pure il vantaggio di una maggior quantità di tempo libero rispetto a tutti gli altri detenuti.
La quarta causa di conversione è quella che appare, in realtà, più odiosa ed inquietante. Dallo stesso rapporto Owers, infatti, emerge come molto spesso l’accoglimento della fede islamica non sia il frutto ragionato di una proposta, ma rappresenti una vera e propria imposizione violenta. Qualche mese fa, del resto, un’inchiesta televisiva della BBC aveva mostrato come nelle carceri britanniche gruppi di radicali musulmani costringessero detenuti non islamici a sottostare alle ferree regole della sharia. Un ex agente di polizia penitenziaria del carcere di massima sicurezza di Long Lartin, durante un’intervista a Radio 5 Live della BBC, ha citato casi di detenuti non musulmani intimiditi e picchiati per non aver rispettato le disposizioni della legge coranica, imposte, di fatto, dalle gang musulmane. L’ex agente ha anche descritto i modi persuasivi con cui vengono convertiti i detenuti, a cominciare dai più giovani.
L’amara conclusione del rapporto si trova nelle parole con cui la stessa Ann Owers ha ipotizzato il rischio di una sorta di eterogenesi dei fini: «L’esperienza del carcere può creare un intreccio di alienazione e disaffezione, e restituire alla società persone più propensi alla violenza o, addirittura, a cadere nella trappola ideologica dell’estremismo».
Dello scenario inquietante emerso dal Muslim Prisoners’ Experiences è rimasto, però, soltanto il pallido appello rivolto dalla Owers ai direttori degli istituti penitenziari, gentilmente invitati a trattare i detenuti musulmani come singoli individui e non «come parte di un turbolento gruppo separato».
La politica qui è del tutto latitante e incapace persino di percepire l’umore del popolo che dovrebbe rappresentare. Un interessante sondaggio commissionato dalla Exploring Islam Foundation (EIF) ha evidenziato, infatti, una decisa diffidenza dei britannici nei confronti dei seguaci del profeta Maometto. I dati rivelano come il 58% degli intervistati associ l’islam all’estremismo, il 50% lo identifichi con il terrorismo, ed il 68% lo ritenga un sistema repressivo nei confronti delle donne. Quel sondaggio, peraltro, non è che la conferma di una precedente indagine demoscopica realizzata dalla British Social Attitudes agli inizi di quest’anno, dalla quale era emerso che soltanto un cittadino britannico su quattro mostrava un atteggiamento positivo nei confronti dell’islam, mentre il 55% della popolazione era assolutamente contrario alla costruzione di una moschea nei pressi di casa propria.
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Il dato apparentemente paradossale è che, mentre permane ancora in larga parte della società un sentimento misto di paura e diffidenza nei confronti dei musulmani, l’islam continui, comunque, a diffondersi in Gran Bretagna. I motivi non sono legati soltanto all’immigrazione ed all’arma invincibile della prolificità.
A causa della propria insipienza, la politica del Regno Unito, oramai totalmente obnubilata dai fumi velenosi del politically correct, non riesce in realtà a percepire le potenziali capacità di espansione derivanti da una forte presenza culturale islamica. Mi riferisco, ad esempio, al pieno riconoscimento, all’interno del sistema giudiziario britannico, dei Muslim Arbitration Tribunal, ovvero di una forma di giustizia rapida ed alternativa, che oggi è capace di attrarre anche molti non musulmani.
Del resto, il fallimento del sistema multiculturale britannico – cui qualche sciocco disinformato di casa nostra guarda con ammirazione – risiede proprio nell’assoluta assenza di una coscienza identitaria da parte di chi ha la responsabilità istituzionale di porsi come interlocutore di un confronto tra diverse civiltà e culture. Il cinico opportunismo politicamente corretto, che oggi caratterizza la classe dirigente britannica, non è all’altezza della sfida epocale imposta dai tempi.
Lo ha chiaramente dimostrato, l’anno scorso, il pittoresco sindaco di Londra, Boris Johnson, quando ha invitato tutti i cittadini londinesi a partecipare, almeno un giorno, al digiuno del ramadan, per poi recarsi, dopo il tramonto, in una moschea. L’invito era rivolto affinché gli stessi londinesi imparassero a comprendere i propri vicini musulmani, e a «trarre edificanti ed istruttive lezioni dallo spirito e dal significato del digiuno islamico».
Quella improvvida boutade del biondo e strampalato Lord Mayor ha avuto un effetto assolutamente negativo. Da una parte ha irritato, comprensibilmente, i londinesi che diffidano dell’islam, dall’altra ha aumentato il disprezzo dei musulmani nei confronti dei britannici che hanno rinunciato alla propria identità, tradizione, cultura e fede, barattandola per interessi politici di basso cabotaggio.
Davvero non è con i metodi di Johnson e compagni che si può pensare a possibili forme d’integrazione.