Scene di ordinaria intolleranza nella Londra multiculturale. Questa volta è toccato a quei ciechi che si sono visti sbattere in faccia le porte di bus e taxi, perché accompagnati da cani-guida. Il fatto è che proprio quegli animali, considerati dai britannici i migliori amici dell’uomo, sono ritenuti dalla legge islamica “najis”, esseri impuri, il cui contatto implica per il musulmano devoto la cosiddetta “najasat”, ovvero una condizione giuridico-religiosa che gli impedisce di accedere ad alcuni atti rituali. L’ultimo dei malcapitati, George Herridge, pensionato cieco di settantatre anni che vive con la moglie Janet a Tilehurst, quartiere di Reading, si è rivolto al quotidiano Daily Mail per raccontare le disavventure in cui è incorso a causa del fido Andy, un Labrador nero.

Per ben due volte, infatti, al pensionato guidato da Andy è stato impedito l’accesso al bus pubblico. La prima a causa del rifiuto di un conducente musulmano, e la seconda a causa di due passeggere, una donna islamica e la propria figlia, che alla vista dell’animale impuro sono state colte da un attacco isterico. Il povero Mr. Herridge, peraltro, è avvezzo a simili scene d’intolleranza, cui è costretto ad assistere anche quando si reca in ospedale o al supermercato. La Guide Dogs for the Blind Association, l’associazione dei cani-guida per ciechi, e la National Federation of the Blind (NFB), la Federazione Nazionale Ciechi, hanno confermato che questo problema è assai più diffuso di quanto si possa immaginare e sta «sempre più degenerando».

Jill Allen-King, portavoce della NFB, ha confessato di essere stata ripetutamente lasciata sul marciapiede da tassisti musulmani che si rifiutavano di far salire a bordo dell’auto il suo cane-guida. Un giorno che tentò, invano, di forzare il blocco, fu persino insultata dal tassista, il quale le gridò che, a causa del suo cane, lui avrebbe dovuto tornare a casa e ricorrere alle abluzioni rituali per eliminare la najasat. I guai tra cani e islam non riguardano, però, soltanto le persone non vedenti. E’ capitato anche a Judith Woods, giornalista del Telegraph, che lo scorso 22 luglio ha scritto un commento sulla vicenda.

«In due occasioni, la scorsa settimana – ha raccontato la giornalista – il mio cane si è visto sbarrare le porte dei bus londinesi, non perché sia particolarmente pericoloso, ma per ragioni squisitamente religiose». Il motivo del primo altolà, infatti, era dovuto al fatto che sull’autobus vi fosse una donna musulmana. Non è stata neppure concessa la possibilità di fare delle rimostranze, perché al primo tentativo di protesta le porte del bus si sono chiuse ed il mezzo è partito. La Woods è stata particolarmente sfortunata quel giorno, perché quando è arrivato il secondo autobus, si è vista opporre un successivo rifiuto. Questa volta il problema era l’autista islamico.


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«Io so che i musulmani – ha scritto Judith Wooods nel suo articolo – considerano i cani come animali impuri, ma il nostro non è un Paese musulmano, e la società dei trasporti londinesi non è un’organizzazione confessionale». «Io sono cattolica – ha proseguito la giornalista – ma non mi sognerei mai di pretendere che venga imposto il divieto di salire sugli autobus alle persone divorziate». Judith Woods ha confessato di aver avvertito una sorta di «latente forma di intolleranza, mascherata da devozione religiosa». Il fenomeno, tra l’altro, ha assunto un tale rilievo da meritare persino l’attenzione della House of Lords, grazie ad un’interrogazione parlamentare presentata, lo scorso 13 luglio, da Lord Monson.

Il Ministro dei Trasporti, Norman Baker, ha riferito, in proposito, che ai possessori di cani può essere legittimamente richiesto di non salire sugli autobus pubblici, qualora gli animali dovessero creare disagio. Tuttavia, ha precisato che un rifiuto fondato su motivazioni religiose apparirebbe, in effetti, «more questionable», un pochino più opinabile. Il tema della najasat dei cani sta diventando, in Gran Bretagna, un ulteriore elemento di frizione nel tormentato rapporto con la comunità islamica. Ricordo, ad esempio, la vicenda della Polizia del Tayside, regione scozzese, che tempo fa lanciò una campagna pubblicitaria per diffondere il proprio numero di telefono, utilizzando delle cartoline postali in cui era riprodotta l’immagine di un simpatico cucciolo di cane poliziotto.

 

 

Tanto bastò per far infuriare la locale e nutrita comunità musulmana, al punto che, dopo la formale protesta di Mohammed Asif, consigliere comunale della città di Dundee, la Tayside Police ha dovuto chiedere pubblicamente scusa alla comunità, e dare immediate disposizioni per il ritiro del materiale spedito. Nei confronti dei cittadini britannici musulmani, inoltre, si ha anche il riguardo di non sottoporli al controllo dei cani poliziotto anti-bomba ed anti-droga, proprio a causa della najasat, come ha denunciato il giornalista Tom Whitehead con il suo articolo, pubblicato dal Daily Express, “Sniffers dogs offend muslims”. Tutta questa vicenda, surreale ma sintomatica, impone alcune riflessioni.

La prima è che con i musulmani non si può parlare di “integrazione” di culture. Siamo di fronte a concezioni antropologiche troppo distanti e tra loro inconciliabili. Comunque impossibili da integrarsi. Si può e si deve, in realtà, parlare di convivenza pacifica, di civile coabitazione, di reciproco rispetto, di mutua comprensione, ma non di più. L’islam stesso, del resto, è un fenomeno che non lascia spazi a cedimenti e compromessi, ed appare intrinsecamente strutturato per l’inclusione e non per l’integrazione, come la storia ha ben dimostrato.

 

 

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E’ sufficiente pensare a cosa è accaduto alle altre culture nei Paesi dove l’islam è oggi maggioranza, e come esso non sia riuscito ad integrarsi nei Paesi in cui rappresenta una consistente minoranza, neppure dopo secoli di convivenza all’interno di uno stesso popolo. Emblematici sono, ad esempio, i casi dell’India, del Kossovo, delle Filippine, della Thailandia. Ha ragione il Patriarca di Venezia, il Cardinal Angelo Scola, quando dice che «siamo “condannati” al dialogo con l’Islam», perché «si tratta di un processo storico che non chiede il permesso, e che può essere orientato ma non evitato».

Giustissimo. Ma per dialogare occorrono due interlocutori con la piena consapevolezza della propria identità, e soprattutto uno Stato che garantisca un grado minimo di tolleranza reciproca, un clima in cui non debbano avvenire episodi spiacevoli come quelli accaduti a Mr. Herridge, perché, altrimenti, tutto rischia di rimanere a livello di astrazione intellettuale, con effetti contrari ai buoni propositi. Il confronto di civiltà, infatti, non avviene nei dibattiti accademici di seminari, conferenze e convegni, ma si realizza soprattutto a livello di vita vissuta.

Il vero incontro non è tra culture ma tra persone concrete che pure hanno la loro cultura ed una propria fede religiosa, e avviene sempre attraverso l’esperienza quotidiana che gli uomini vivono in famiglia, al lavoro, a scuola, nell’autobus. Per questo esiste una precisa responsabilità di chi deve politicamente guidare i processi di incontro tra civiltà diverse, e sarebbe un gravissimo errore assumere atteggiamenti rinunciatari e pilateschi.

E per questo, ancora una volta, ha ragione il Cardinal Scola quando denuncia «la grande lentezza di risposte» degli europei, che lo stesso porporato – mutuando un’espressione dai Cori della Rocca di T.S. Eliot – definisce «un po’ impagliati», e chiusi nell’astrazione di chi ama «discettare nei propri salotti piuttosto che guardare in faccia i processi della realtà e della vita». Con sano realismo, Sua Eminenza ammonisce che il fenomeno di approccio con la cultura islamica «ci riguarda direttamente non solo perché “questi ci vengono in casa”, ma ancor di più perché mancherebbe la grammatica stessa per intenderci, se noi europei ci chiamassimo fuori». Resta, comunque, imprescindibile una delle condizioni “sine qua non” del dialogo: la garanzia e la concreta realizzazione di un clima di tolleranza reciproca. Senza questa condizione il dialogo rischia di diventare un inutile monologo. O peggio, un astuto inganno.