Il volto illiberale dell’Europa tenta un altro colpo. Questa volta nel mirino è finito il diritto all’obiezione di coscienza in caso di aborto. Visto da sempre come la bestia nera dalle lobby abortiste, non poteva tardare il tentativo di limitarlo o addirittura eliminarlo.

Nella prossima sessione plenaria del Parlamento Europeo, che si terrà dal 4 all’8 ottobre 2010, verrà posta in discussione la risoluzione “Women’s access to lawful medical care: the problem of unregulated use of conscientious objection” (AS/Soc (2010) 18 – del 21 maggio 2010), già approvata a maggioranza in Commissione Affari Sociali, Salute e Famiglia lo scorso 22 giugno scorso. Già il titolo della risoluzione appare eloquente: “Accesso delle donne a cure mediche legali: il problema di un uso non regolamentato dell’obiezione di coscienza”. Relatrice del documento è l’eurodeputata britannica Christine McCafferty. Per rendersi conto della gravità della questione e dell’impronta ideologica che aleggia dietro l’iniziativa, è sufficiente leggere il rapporto McCafferty (doc. 12347 del 20 luglio 2010).

La risoluzione, in pratica, chiede all’Assemblea che, dopo essersi dichiarata profondamente preoccupata (“deeply concerned”) per il fenomeno dell’obiezione di coscienza, evidenzi l’importanza di «bilanciare il diritto a tale obiezione con il “diritto” della donna ad un “medical care” in tempi ragionevoli» (punto 2 ris.). Medical care, letteralmente cura medica, sta in realtà per aborto. Viene quindi sancito un diritto sacrosanto all’interruzione volontaria della gravidanza, che, secondo il punto 3 della risoluzione, dovrà essere rigorosamente «rispettato, protetto ed adempiuto» (respected, protected, and fulfilled).

L’obiezione di coscienza dovrà, poi, essere riconosciuta esclusivamente al medico e «non potrà riguardare strutture nel loro insieme, quali ospedali pubblici e cliniche» (punto 4.1.1). Verrà, inoltre, accuratamente sottoposta ad un rigido sistema di controllo, «anche attraverso un’adeguata procedura di reclami», in modo che venga assicurato a tutti, «ma soprattutto alle donne il ricorso tempestivo a prestazioni sanitarie». Il punto 4.1.3 della proposta di risoluzione, infine, prevede espressamente l’obbligo di fornire il trattamento medico (rectius aborto) nonostante l’obiezione di coscienza, quando sia eccessivamente disagevole trovare un’altra struttura disponibile, o quando tale struttura si trovi oltre un “ragionevole” raggio di distanza.

PER CONTINUARE L’ARTICOLO CLICCA >> QUI SOTTO

Non stupisce, in realtà, l’impianto ideologico di questa iniziativa se si considera chi siano i mandanti morali: Christine McCafferty, Christian Fiala e Christina Zampas. Il fatto che i tre nomi propri facciano espresso riferimento al cristianesimo è solo un beffardo scherzo del destino, dal sapore alquanto sarcastico. La prima, McCafferty, membro della Commissione Affari Sociali, Sanità e Famiglia, e relatrice della proposta, è una delle più sfegatate suffragette abortiste del Regno Unito. Basti pensare che tra i supporter della sua campagna elettorale spiccano due organizzazioni arcinote nel mondo pro-choice: Abortion Rights e la famigerata Marie Stopes International.

 

Ricordo la McCafferty guidare la protesta degli abortisti davanti a Westminister il 6 febbraio 2008, e le sue parole pronunciate per l’occasione: «Dopo quarant’anni dall’entrata in vigore della legge sull’aborto del 1967, non possiamo permettere che una sparuta minoranza di antiabortisti possa limitare un diritto fondamentale delle donne. I diritti delle donne dovrebbero essere estesi e non ristretti».

 

Il secondo personaggio è l’austriaco Christian Fiala, Presidente della Federazione Internazionale degli Operatori di Aborto e Contraccezione. Il biglietto da visita non lascia davvero adito a fraintendimenti. Si tratta di un viscerale sostenitore del family planning e dell’interruzione della gravidanza, al punto di aver ideato e realizzato, nel marzo del 2007, un’iniziativa di pessimo gusto: il museo dell’aborto e della contraccezione di Vienna. Ovviamente, in pieno spirito pro-choice.

 

Fiala ha anche avuto il privilegio di essere personalmente citato nel rapporto 11537/08 della Commissione Pari Opportunità del Parlamento europeo, noto come rapporto Wurm (dal nome della relatrice), sulla base del quale è stata poi approvata la risoluzione n. 1607 “Access to safe and legal abortion in Europe” del 16 aprile 2008.

PER CONTINUARE L’ARTICOLO CLICCA >> QUI SOTTO 
 

Il prezioso contributo di Fiala si trova al punto 29 del rapporto, ove si specifica che tutte le forme di restrizione dell’aborto – come i periodi di ripensamento, i colloqui preliminari, il consulto di due medici, ecc. – risulterebbero assai «controproducenti», e avrebbero come unico effetto, non quello di ridurre le gravidanze indesiderate o il numero di aborti, ma semplicemente di perdere tempo e allungare inutilmente i tempi di gravidanza. Vengono persino citate le parole di Fiala sulle cosiddette “restrizioni”: «Servono solo a far abortire feti in uno stato evolutivo più avanzato». Quindi: «più in fretta la donna prende la decisione, più è per lei facile ed accessibile ricorrere all’aborto».

 

Il terzo ed ultimo personaggio è Christina Zampas, avvocatessa dall’intelligenza luciferina, Senior Regional Manager e consulente legale per l’Europa del Center for Reproductive Rights di New York, un’organizzazione di avvocati abortisti. La Zampas teorizza, sotto il profilo giuridico, il diritto all’aborto come un nuovo diritto fondamentale dell’uomo, e si batte da ruggente leonessa davanti alle corti d’Europa per far valere tale principio. A cominciare, ça va sans dire, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.

 

Queste sono le tre figure chiave che stanno dietro la proposta di risoluzione, che – è bene ripeterlo – ha già ottenuto il voto favorevole della Commissione Affari Sociali, Sanità e Famiglia lo scorso 22 giugno. A novembre, quando giungerà davanti all’Assemblea parlamentare, vedremo cosa succederà. Nel frattempo mi permetto una considerazione soltanto. I promotori della risoluzione sono partiti dal falso assunto che esista giuridicamente un diritto all’aborto, e hanno dimenticato che, invece, il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto dalla legislazione internazionale, comunitaria e nazionale.

Lo riconosce, ad esempio, l’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, e l’art. 18 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, ed entrato in vigore il 23 marzo 1976. Per rimanere in Europa, il diritto all’obiezione di coscienza trova riconoscimento nell’art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), e dall’art. 10 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea.

 

PER CONTINUARE L’ARTICOLO CLICCA >> QUI SOTTO 

 

Queste sono le fonti normative su cui si fonda, a differenza dell’aborto, il diritto all’obiezione di coscienza. In realtà, se si vuole andare un po’ più indietro nel tempo, è possibile rinvenire tale principio già nell’antico giuramento di Ippocrate. Quello che i medici pronunciavano invocando Apollo, Asclepio, Igea, Panacea e tutti gli dei e le dee.

In quel testo, infatti, coloro che si votavano alla professione di Esculapio giuravano che non avrebbero mai somministrato un farmaco mortale (φάρμακον θανάσιμον), neppure se richiesto (οὐδενὶ αἰτηθεὶς), e soprattutto che non avrebbero mai dato a nessuna donna un medicinale abortivo (οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω). Era il IV secolo avanti Cristo. Da allora di secoli ne sono trascorsi ventiquattro, duemilaquattrocento anni, ma l’uomo contemporaneo, in quel campo, non sta dimostrando di essere più saggio. Anzi.