Nell’Italia degli anni Trenta lo Stato perseguiva una tenace politica a tutela di quella che veniva definita – con la retorica dell’epoca – «l’umana e divina missione della maternità». Sono di quel periodo provvedimenti legislativi come il Regio Decreto 21 agosto 1937, n. 1542 sull’incremento demografico della nazione, enti di assistenza come l’OMNI, Opera Nazionale Maternità e Infanzia (sciolta nel 1975), sussidi economici quali i famosi “premi di natalità”, concessi per ogni figlio nato vivente a coppie coniugate o a donne nubili, ed elargiti durante Giornata della Madre e del Fanciullo, fissata simbolicamente il giorno della vigilia di Natale, con il chiaro intento di associare la nuova festa fascista alla più tradizionale celebrazione religiosa della Natività.

Nell’Italia repubblicana del 2010 lo Stato sottrae a una donna – cui le strutture pubbliche avevano suggerito di abortire – la figlia appena partorita, sul presupposto di un’asserita fragilità psicologica della madre, di una sua condizione sociale precaria, e di un basso reddito, tale da non poterle consentire di svolgere adeguatamente i propri compiti di genitore.

Ammetto che il paragone possa apparire un po’ forzato. Ma non sono riuscito ad evitare il raffronto storico, quando ho appreso la notizia di quella giovane donna di Trento a cui i servizi sociali hanno portato via la figlia appena messa al mondo, privandola persino della possibilità di allattare. Tutto ciò accadeva otto mesi fa in forza di un provvedimento del Tribunale dei Minori di Trento, che ha giudicato, appunto, fragile il profilo psicologico ed emotivo di quella donna, precaria la sua situazione esistenziale, e non sufficiente il reddito dichiarato di 500 euro al mese.

La decisione, alquanto affrettata, di iniziare la procedura di adottabilità della bimba è stata assunta, peraltro, “inaudita altera parte”, ovvero senza che i magistrati avessero visto o ascoltassero la giovane donna (il primo colloquio tra i giudici e la madre è avvenuto solo a febbraio, un mese dopo la sottrazione della neonata). Dallo scorso gennaio, la donna non ha più saputo nulla della figlia.

È di pochi giorni fa la notizia che lo stesso Tribunale dei minori di Trento, con una sentenza destinata certamente a far discutere, ha dichiarato «lo stato di adottabilità della bimba e il suo affidamento in strutture». Il che significa che la piccola verrà affidata a un’altra madre e a un’altra famiglia.

La sentenza, contro cui la donna ha fatto comunque appello, ha destato le perplessità persino del Dr. Ezio Bincoletto, consulente tecnico d’ufficio nominato dal Tribunale, il quale nella perizia fornita ai magistrati non aveva escluso la possibilità di una maturazione psicologica della madre, e aveva concluso in senso positivo per la sua recuperabilità, suggerendo un periodo di prova di un anno. Purtroppo è andata diversamente. Della decisione del Tribunale dei Minori di Trento ci sono tre aspetti che non mi convincono del tutto.

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Il primo riguarda il fatto che il Tribunale abbia incomprensibilmente liquidato la questione con una decisione sbrigativa e davvero poco consona alla delicatezza del caso. Soprattutto alla luce della perizia del CTU e degli ormai pacifici orientamenti giurisprudenziali della Cassazione e della Corte Europea, i quali suggeriscono di vagliare ogni strada prima di intaccare il diritto del minore a crescere con i genitori naturali. Il dubbio che sorge legittimo è che i magistrati si siano appiattiti sulle risultanze della relazione negativa presentata dai servizi sociali, soprattutto in quella parte in cui si identifica «l’avvio della gravidanza come elemento di fragilità e/o colpa, e/o incoscienza». L’immaturità della donna risiederebbe nel fatto di non aver ponderatamente valutato l’opportunità di abortire, e di aver voluto affrontare la gravidanza con colpevole e incosciente leggerezza.

 

Sembra, in questo caso, aver ragione il Dott. Pino Morandini, magistrato e vicepresidente nazionale del Movimento per la Vita, quando paventa il rischio «che si vada affermando nelle istituzioni e persino in tanti pubblici servizi, l’inconsapevole e paradossale tendenza a criminalizzare la maternità, quasi fosse, invece di un dono grandioso, una colpa o, nel migliore dei casi, una leggerezza».

 

Il secondo aspetto critico della decisione riguarda il fatto che lo stesso Tribunale dei Minori abbia giudicato la madre «inadeguata», quando la donna era ancora legata al proprio figlio dal cordone ombelicale. È, infatti, un ardito salto logico quello di valutare l’asserita “incapacità genitoriale” di una madre, prima che questa venga messa in condizione di esercitare tale capacità. Sarebbe come venir bocciati a un esame, prima ancora di poter sostenere la prova. In realtà, il Tribunale ha ritenuto di aggirare l’ostacolo procedendo a una valutazione del profilo psicologico della donna, analizzandone la «capacità genitoriale», concetto, peraltro, che di per sé rappresenta un falso scientifico, dato che non se ne trova traccia in alcun manuale di psicologia.

 

Come ha giustamente evidenziato il Dott. Giuseppe Raspadori, psicologo e perito di parte della madre trentina, «l’affidamento a terzi di un minore è un’ipotesi che dovrebbe essere perseguita per gravissimi ed eccezionali motivi» (abusi sessuali, violenze, ecc.), «altrimenti la pretesa di misurare e giudicare la qualità dell’amore materno senza tenere conto della naturale visceralità del rapporto, non solo rischia di far prendere solenni cantonate, ma purtroppo anche di commettere ingiustizie e vere e proprie crudeltà».

 

Il terzo aspetto, quello che reputo più preoccupante, è relativo al fatto che il Tribunale dei Minori abbia addotto tra le motivazioni della propria decisione, anche una valutazione di carattere economico circa l’asserita indigenza della madre, titolare di un reddito di soli 500 euro mensili. Questo è precedente pericolosissimo. L’adozione di un simile criterio ha già la portata di un avviso di sfratto a tutti i genitori che si trovino, ad esempio, in cassa integrazione, che abbiano subito un licenziamento, o che svolgano un lavoro precario.

 

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Lo Stato rischierebbe di vestire i panni di una perfida cicogna che agisce come un Robin Hood al contrario, sottraendo i figli ai poveri per darli ai ricchi. Lo scorso luglio il rapporto Svimez sull’Economia del Mezzogiorno ha registrato dati inquietanti, mostrando come una famiglia su cinque non sia in grado di sostenere le spese per curarsi e per riscaldarsi. Secondo quanto emerge dal rapporto, al 30% delle famiglie del Sud sono mancati i soldi per i vestiti, nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo le bollette, otto famiglie su 100 hanno rinunciato ad alimentari necessari, il 21% non ha avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia), e il 20% non ha potuto rivolgersi al medico (in Sicilia e Campania circa il 25%).

 

Sempre secondo i numeri forniti da Svimez, quasi un meridionale su tre (6 milioni 838mila persone in valore assoluto) è a rischio povertà a causa di un reddito troppo basso, un rapporto che al Centro-Nord è di uno su dieci. Per quanto riguarda l’entità dei redditi, il rapporto indica che il 14% delle famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese, e che nel 47% delle famiglie meridionali vi è un unico stipendio, percentuale che passa addirittura al 54% nel caso della Sicilia. Ora, di fronte ad un simile scenario, è lecito chiedersi che cosa accadrebbe qualora la “capacità genitoriale” dovesse essere valutata anche sotto l’aspetto economico, come ha fatto il Tribunale dei Minori di Trento?

 

In realtà ci sono due modi per affrontare la questione. Il primo è quello delle Opere Nazionali Maternità e Infanzia, delle politiche di incentivo allo sviluppo demografico, dell’assistenza e dei premi di natalità, tutte cose che il nostro Paese ha già conosciuto in un periodo storico che, obbiettivamente, non ha brillato quanto a democrazia.

 

Il secondo modo è quello della sottrazione dei figli alle madri indigenti che rifiutano di abortire. È certamente un metodo più moderno e diverso rispetto a quello del ventennio fascista. Ma sul fatto che sia più democratico, mi permetto di nutrire più di un dubbio.

 

Chi ci ha visto meglio di tutti in questa vicenda sembra essere S.E. mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, il quale ha parlato, citando la filosofa ebrea Hanna Arendt, di «democrazia totalitaria». Ecco, credo che dentro questa espressione sia racchiusa la vera chiave di lettura della dolorosa vicenda accaduta a Trento.