La crisi del lavoro indotta dalla pandemia sta rendendo evidenti le lacune che il sistema di welfare ha nei diversi Paesi. L’aumento dei poveri, registrato ovunque dalle code ingrossate in ogni centro di aiuto, dal Banco alimentare ai centri Caritas agli sportelli emergenze dei servizi sociali, indicano che il sistema di misure di sostegno previste dalle politiche contro la povertà mostrano molti limiti.



È vero che si tratta di una crisi anomala. In genere le crisi economiche avevano un effetto sui diversi settori economici mediamente simili. Stavolta abbiamo effetti asimmetrici forti. Alcuni settori hanno visto incrementare la domanda e hanno registrato una crescita di occupati, mentre in altri la domanda è pressoché azzerata. Chi era impiegato in questi ultimi settori ha visto chiudere la propria possibilità di proseguire nel lavoro e ha trovato solo nelle misure di sostegno al reddito il modo di tirare avanti. Ma per i lavoratori stagionali, per cui la stagione non è mai iniziata, e per piccoli imprenditori ha significato un azzeramento completo delle risorse da lavoro. Dove ciò si è sommato a indebitamento precedente, o ad altra fragilità, è diventato un percorso che in pochi mesi ha portato alla povertà manifesta.



Dopo un anno dall’avvio della crisi sanitaria, a cui si è risposto con tutti gli strumenti disponibili per dare sostegno ai redditi di lavoratori dipendenti e autonomi, appare chiaro che solo queste misure da un lato non bastano a coprire il fabbisogno di risposta ai bisogni crescenti e, inoltre, che occorre predisporre misure di politica attiva del lavoro per affrontare la nuova fase che si sta aprendo con la ripresa di “normalità” che seguirà la fase vaccinale.

La priorità torna a essere quella di dare occupazione a tutti e fare in modo che dal lavoro vengano le risorse per rispondere ai bisogni dei singoli e delle famiglie. Il periodo dei sussidi a pioggia è arrivato al tramonto e si torna a distinguere quelle che sono misure sociali indispensabili per interventi contro la povertà e le fragilità socioassistenziali dalle politiche di inclusione sociale legate ai servizi per la ricollocazione lavorativa delle persone.



Dalle poche informazioni uscite dai colloqui tenuti da Mario Draghi con le forze politiche e le rappresentanze sociali è emerso che la richiesta di avviare un programma nazionale di politiche attive del lavoro, che riveda in senso universalistico il sistema di ammortizzatori sociali, ormai superato, è stata avanzata da tutti. Anche le organizzazioni sindacali, che pure restano legate alla richiesta di proroga per il blocco dei licenziamenti, legano il termine di questa fase straordinaria all’avvio di un nuovo sistema di tutele e di politiche di ricollocazione.

Nel frattempo alcune misure sono già state predisposte con la scelta del finanziamento del fondo formazione per nuove competenze e la politica attiva denominata Gol, oltre al prosieguo di Garanzia giovani. A queste misure nazionali si sommano altre regionali che puntano a percorsi formativi dedicati oltre che ai disoccupati anche ai lavoratori in cassa integrazione. In alcuni casi si sono avviati progetti destinati a settori produttivi specifici per affrontare problemi di transizione tecnologica e di ripresa della domanda (è il caso dei settori moda e turismo).

In molti casi sono intervenute anche amministrazioni comunali che hanno abbinato ai provvedimenti di sostegno contro la povertà fondi di sostegno per politiche occupazionali. Talvolta hanno concesso finanziamenti per abbattere il costo del lavoro per assunzioni destinate a disoccupati da Covid o per creare fondi di credito agevolato per sostenere attività economiche locali.

Non è stato ancora fatto un lavoro di censimento delle tante iniziative nate sul territorio. Molte meriterebbero di essere conosciute per diventare best practices a disposizione di altre amministrazioni che volessero replicarle. In tutte sono implicati attori del Terzo settore che si è dimostrato, anche in questo frangente, capace di essere protagonista, organizzando nuove efficaci risposte al sorgere di bisogni nuovi. Più lenta la macchina pubblica ingessata dalla burocratica coazione a ripetere le stesse azioni e incapace di cogliere le novità e adattarsi.

Da tutte queste esperienze deriva però la necessità di avere uno schema nazionale unico cui agganciare le iniziative locali. Ciò anche per non produrre doppioni con la dispersione di risorse e la perdita di efficacia delle misure poste in atto.

La prima lezione è che bisogna mettere in campo tanti operatori capaci di fare politiche del lavoro. La collaborazione fra Centri per l’impiego pubblici, Agenzie per il lavoro e operatori accreditati e autorizzati è indispensabile per poter affrontare la forte domanda di servizi che vi sarà e riuscire a prendere in carico tutte le persone che chiederanno sostegno per trovare lavoro. Ogni strumento messo in campo deve avere come finalità quella di sostenere la collaborazione e il fare rete fra i diversi soggetti e stimolare la positiva concorrenza intesa come spinta a concorrere tutti a ottenere i migliori risultati. 

Fra la presa in carico e la possibile ricollocazione lavorativa stanno tutti quei servizi e quelle facilitazioni che devono essere forniti in modo personalizzato per dare a tutti la possibilità di migliorare la propria occupabilità. Qui serve la massima flessibilità perché ogni target di disoccupato abbia la migliore risposta e la collaborazione fra operatori, enti locali e Terzo settore possa trovare l’ambito per sviluppare, con risorse locali, quelle misure che tengano conto delle particolarità che il territorio e il settore economico particolare offrono. 

Più si definirà un modello unico (nazionale o regionale) fortemente rigido e più si farà perdere di efficacia lo strumento ma soprattutto si rischierà di perdere per strada la ricchezza di risorse aggiuntive che i corpi intermedi presenti sul territorio sono in grado di mettere a disposizione di tutti.

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