L’uscita dalla crisi economica comporterà un’autentica rivoluzione per il mercato del lavoro italiano. E questo dovrebbe essere, per tutte le persone di buon senso, lo scenario auspicabile. Quello collegato a una massiccia ripresa degli investimenti in grado di compensare le inevitabili ricadute occupazionali negative dovute alla selezione delle imprese, all’impatto delle innovazioni tecnologiche e ai riflessi di breve medio periodo nei settori più esposti alle misure di distanziamento e prevenzione del Covid-19.



Il saldo negativo sui livelli complessivi dell’occupazione viene dato per scontato nelle previsioni relative al biennio in corso, ma sulla carta è del tutto possibile un recupero delle perdite e persino un incremento del tasso di occupazione in molti comparti dei servizi. A partire da quelli dell’assistenza alle persone e della sanità dove si concentra buona parte del divario rispetto al mercato del lavoro degli altri Paesi europei. Ma in generale è necessario che i processi di innovazione e di incremento della produttività riguardino in modo trasversale tutte le aree di attività produttive, ivi comprese quelle destinate a registrare un saldo occupazionale negativo finale, a partire dall’industria manifatturiera.



L’incertezza sui saldi finali si accompagna a una certezza riguardo l’esigenza di favorire questi processi con un forte investimento sulle risorse umane e sull’adeguamento delle competenze dei lavoratori. Senza trascurare l’esigenza di far crescere una nuova generazione di imprenditori, manager e professionisti che sappiano guidare questi cambiamenti.

Un tema che incrocia inevitabilmente quello della qualità delle politiche attive del lavoro. Cioè quel complesso di misure rivolte a migliorare i sistemi di orientamento e di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, per integrare i percorsi formativi con quelli lavorativi, e per incentivare l’inserimento lavorativo sulla base di esigenze personalizzate delle imprese e dei lavoratori. Un tema che riscontra una popolarità nelle manifestazioni convegnistiche, e nelle dichiarazioni degli esponenti politici e delle rappresentanze sociali, inversamente proporzionale alle risorse e alle energie concretamente messe in opera.



Il paradosso trova una spiegazione in una serie di palesi ritardi dell’approccio culturale delle classi dirigenti verso le politiche del lavoro che hanno influenzato profondamente anche i comportamenti delle persone.

Il primo è riconducibile alla diffusa convinzione che la qualità del mercato del lavoro sia una diretta conseguenza delle norme che regolano i rapporti di lavoro. Frutto anche della particolare influenza egemonica svolta dalle diverse culture giuslavoriste nell’orientare le politiche del lavoro in Italia. Un approccio che da sempre rivolge le sue attenzioni alla peculiarità dei diritti e dei vincoli che regolano il rapporto di lavoro rispetto agli interventi più sostanziali rivolti a migliorare l’occupabilità delle persone nel mercato del lavoro. Ne è la riprova, ad esempio, la perenne tentazione di voler delimitare l’uso dei contratti a termine, identificati tout court come veicolo della precarietà, per un mercato del lavoro italiano caratterizzato dal basso tasso di occupazione, da un elevato livello di mobilità del lavoro relazionato alle caratteristiche strutturali di molti settori e da una componente rilevante di lavoro sommerso.

Rispetto alle dinamiche del mercato del lavoro, si tende a privilegiare l’ottica degli interventi rivolti a tutelare i posti di lavoro esistenti. Le casse integrazioni sono storicamente una peculiarità italiana, e i massicci ricorsi ai sostegni al reddito prolungati nel tempo, rispetto ai sostegni di tipo universale e con strumenti e risorse finalizzate all’inserimento lavorativo dei disoccupati. Le conseguenze sono ben documentate nelle comparazioni con gli altri Paesi europei riguardo le tipologie degli interventi di politica del lavoro, che segnalano per l’Italia forti squilibri tra le risorse dedicate alle politiche passive a discapito dei servizi di orientamento, formazione e sostegni al reinserimento lavorativo, e per le tutele rivolte ai lavoratori protetti rispetto a quelli che si debbono far carico dei fabbisogni di flessibilità salariale e organizzativa dei sistemi produttivi e di erogazione dei servizi.

Diversi tentativi per rimediare questi divari con gli altri Paesi europei sono stati introdotti, a partire dalla seconda parte degli anni ’90, in coincidenza con le riforme rivolte al superamento del monopolio pubblico del collocamento e del decentramento delle competenze per le politiche attive verso le regioni. A queste riforme, e ad altre che ne sono seguite, si deve la promozione delle Agenzie per il lavoro private, la creazione dei fondi interprofessionali per la formazione continua dei lavoratori e quelli di solidarietà per la gestione integrata dei sostegni al reddito settoriali con gli interventi di riqualificazione dei lavoratori gestiti con il concorso delle parti sociali, e una serie di innovazioni introdotte per l’apprendistato, gli stages, i tirocini di varia natura con il concorso delle legislazioni regionali. Il tutto con il supporto di centinaia di miliardi di fondi europei e nazionali finalizzati a potenziare i servizi, finanziare la formazione professionale, i programmi per l’alternanza scuola lavoro e gli incentivi di varia natura per le assunzioni. Dispersi in mille rivoli, prevalentemente in logiche autoreferenziali, e in alcune buone pratiche che non hanno prodotto effetti sistemici apprezzabili. Nel frattempo è ulteriormente aumentato il divario con gli altri Paesi europei riguardo l’efficacia dei sistemi di intermediazione della domanda e offerta di lavoro, la quantità e la qualità degli investimenti formativi sulle risorse umane e la reperibilità dei profili professionali richiesti dalle imprese.

L’ultimo tentativo di rafforzare le politiche attive, con la riforma dei sostegni al reddito del 2014, finalizzato a razionalizzare l’utilizzo delle casse integrazioni, e per ricostruire intorno alla nuova indennità di disoccupazione (Naspi) la condizione di un legame più diretto con le politiche attive, è stato messo rapidamente in soffitta con l’avvento del reddito di cittadinanza. E con la delirante decisione di dirottare tutti gli investimenti previsti per le politiche attive del lavoro sui beneficiari di questa prestazione. Un fallimento scontato, ma una scelta che tuttora sopravvive a dispetto del fabbisogno incombente di dover provvedere al reinserimento di milioni di nuovi disoccupati.

Nel bel mezzo di una crisi senza precedenti, gestita con un’abnorme proliferazione degli interventi assistenziali, alcuni dei quali del tutto privi di senso, ritroviamo il proposito di mettere in campo l’ennesima proposta di riforma degli ammortizzatori sociali finalizzata a semplificare l’accesso alle prestazioni per tutti i lavoratori e da collegare in modo rigoroso con le politiche attive.

Attori protagonisti: la ministra del Lavoro Catalfo, storica promotrice del reddito di cittadinanza, i sindacati, interessati a prorogare vita natural durante le casse integrazioni e il blocco dei licenziamenti, e le associazioni imprenditoriali che invocano le politiche attive per scaricare su altri soggetti i lavoratori in esubero. L’esito finale è scontato. Perché per le politiche attive non servono nuove norme, ma una diversa cultura del lavoro.