Pur commentando abitualmente sui mass media l’evoluzione del mercato del lavoro e delle politiche a esso dedicate, per i miei trascorsi professionali, in particolare per i ruoli di responsabilità che svolti nel passato in Italia Lavoro Spa (l’attuale Anpal Servizi braccio operativo dell’Anpal) ho sempre evitato di esprimere delle valutazioni sull’evoluzione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, nonostante le profonde riserve che ho personalmente maturato sulla qualità delle scelte di politica del lavoro intraprese negli anni recenti.
Tra queste, quella di costituire un’Agenzia nazionale dipendente dal ministero del Lavoro, senza tener conto della complessa distribuzione delle competenze istituzionali in materia di politiche attive subentrata all’inizio degli anni 2000 con l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione.
La decisione di commissariare l’Anpal, palesemente espressa dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, certifica il fallimento dell’operazione. Tale scelta viene ufficialmente motivata per il venir meno delle condizioni che avevano originato la decisione di costituirla all’epoca del Governo Renzi per riportare in ambito nazionale buona parte delle competenze delle politiche attive del lavoro, ridimensionando quelle messe in capo alle Regioni con la riforma del Titolo V della Costituzione. La motivazione pratica, come riportato sui mass media, è legata alla sostanziale paralisi intervenuta nella governance dell’Anpal in relazione alla ripartizione e gestione dei poteri tra l’attuale Presidente, e contemporaneamente amministratore unico della Anpal Servizi, con quelli del Direttore generale.
Ma questa interpretazione, al di là del naufragio della riforma istituzionale bocciata dal referendum costituzionale e della discutibile governance che mette in capo al Presidente dell’Agenzia la funzione di indirizzo e di controllo insieme alla responsabilità di attuare le decisioni, appare alquanto riduttiva. La presa d’atto dell’esaurimento della missione della Agenzia nazionale va considerato come parte integrante del fallimento dei tentativi di affermare in Italia le esperienze di politica attiva del lavoro in vigore nei principali Paesi europei e anglosassoni. Le politiche che hanno consentito di accompagnare l’evoluzione dei sistemi produttivi, e la domanda di lavoro delle imprese, con gli interventi rivolti a favorire l’occupabilità delle risorse umane esposte alla rapida obsolescenza delle professioni indotta dalle trasformazioni tecnologiche e organizzative, e all’incremento dei tassi di mobilità del lavoro.
Nel Libro Bianco sul mercato del lavoro italiano, redatto nel 2001 da un gruppo di esperti coordinato dal compianto Prof. Marco Biagi (che pagherà con la perdita della vita il coraggio delle tesi esposte), venivano evidenziate le cause dei ritardi italiani: la tendenza a rimediare le criticità del mercato del lavoro aumentando i vincoli normativi per la gestione dei rapporti di lavoro a discapito delle iniziative rivolte a migliorare le competenze e l’occupabilità delle persone; l’utilizzo delle risorse finanziarie prevalentemente orientato a sostenere le politiche passive e i sussidi al reddito per conservare in molti casi posti di lavoro di fatto obsoleti, a discapito di quelle da destinare all’orientamento e alla formazione dei lavoratori; il crescente distacco tra i percorsi educativi e formativi rispetto ai fabbisogni del mercato del lavoro; la frammentazione della governance degli interventi su una miriade di soggetti istituzionali, e di operatori pubblici e privati, privi di coordinamento e di reti informative e operative condivise. Il 2001 segna, purtroppo, l’avvio di uno sconclusionato decentramento delle competenze verso le Regioni e le Province destinato a generare conflitti tra le istituzioni, coinvolgendo la stessa Corte Costituzionale (persino sulla legittimità dello Stato di gestire i sistemi informativi e di monitoraggio) che si trascineranno per alcuni anni, e la deflagrazione dell’uso delle risorse in una miriade di interventi locali e di progetti di breve respiro.
Ogni tentativo di far avanzare la stagione delle riforme del mercato del lavoro, proseguendo il percorso iniziato nel 1996 con la legge Treu per la riforma del collocamento pubblico e privato, è stato accompagnato negli anni Duemila da polemiche ideologiche tra le forze politiche e sociali che hanno contraddistinto una numerosa produzione di leggi di riforma e di controriforma dei rapporti di lavoro in assenza di analisi adeguate sulla concreta evoluzione del mercato del lavoro.
A distanza di 20 anni le criticità descritte nel Libro Bianco di Marco Biagi rimangono pressoché inalterate. Gli indicatori dei tassi di occupazione: quello generale, i divari di genere, generazionali e territoriali e sulla qualità dei rapporti di lavoro, sono peggiorati rispetto le medie europee. Con risultati risibili rispetto all’impiego di una mole notevole di risorse nazionali ed europee e, tra queste, oltre 30 miliardi destinati nel corso degli ultimi 5 anni ad incentivare le nuove assunzioni a tempo indeterminato.
Questi fallimenti pesano come macigni nella condizione attuale, di fronte al fabbisogno di governare, e di rendere sostenibile, l’adeguamento delle competenze e la mobilità del lavoro per milioni di persone in uscita da una tremenda crisi economica. La parte del Pnrr dedicata al mercato del lavoro e all’inclusione è decisamente tra le più deboli del programma generale, e si limita essenzialmente alla riproposizione di una molteplicità di progetti contraddistinti da obiettivi generici, da risorse utilizzabili solo a seguito della definizione dei programmi da concordare successivamente con le Regioni competenti, e che dovranno a loro volta gestire in modo autonomo le ulteriori risorse provenienti da fondi ordinari europei e nazionali, in assenza di un disegno unitario finalizzato a offrire alle persone che cercano lavoro punti di riferimento stabili e un’offerta adeguata di servizi e di prestazioni personalizzate.
Pesa su questi ritardi la scelta scellerata di dirottare le politiche attive del lavoro, e le risorse nazionali, verso il reddito di cittadinanza, con la promessa di trovare posti di lavoro a tempo indeterminato per centinaia di migliaia di beneficiari dei sussidi difficilmente occupabili, tramite l’assunzione di un notevole numero di improvvisati navigator, a cui viene richiesto di rimediare la carenza di comportamenti adeguati dell’intero sistema che riesce a intermediare a malapena il 4% dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro (a partire dalla possibilità degli stessi beneficiari di poter rifiutare le offerte di lavoro senza pagare dazio).
Nonostante ciò, l’esigenza di ricostruire una governance intesa come capacità di coordinare le iniziative delle istituzioni, degli operatori pubblici e privati della formazione e dell’intermediazione tra la domanda e offerta di lavoro, e delle parti sociali, condividendo sistemi informativi e standard operativi, rimane una delle condizioni indispensabili per colmare i ritardi.
Se questo deve essere, la scelta di riportare nel ministero del Lavoro l’ambito della definizione degli obiettivi e indirizzi per la gestione delle risorse dovrebbe essere accompagnata dalla trasformazione dell’attuale Anpal Servizi in un’agenzia strumentale federale, condivisa con le Regioni e le rappresentanze sociali, verso la quale far convergere il coordinamento delle politiche attive con le politiche passive gestite dall’Inps, per la finalità di coordinare gli interventi di politica attiva di rilievo nazionale e internazionale. Un’evoluzione che potrebbe essere pilotata con una rapida riforma della governance dell’attuale Anpal servizi, mettendo in capo alla Conferenza Stato-Regioni ed enti locali l’approvazione dei programmi di rilievo nazionale e internazionale proposti dalla nuova Agenzia.
Nonostante le criticità evidenziate, il salto di qualità è possibile, a condizione che politiche attive del lavoro non vengano, per l’ennesima volta, ridotte al mero potenziamento dei servizi pubblici, o assunte come pretesto per ampliare l’ambito e la durata dei sostegni al reddito.
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