Anpal. Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Quando nelle norme del Jobs Act si era vista la nascita dell’agenzia qualche speranza si era accesa: finalmente anche in Italia si dava vita a un organismo di programmazione e coordinamento delle politiche attive del lavoro come da anni avveniva nei principali Paesi europei. La nostra tradizione di politiche passive pensate per la difesa del posto di lavoro veniva archiviata per passare alla difesa del lavoratore nel mercato del lavoro assicurandogli occupabilità tramite servizi di orientamento e formazione. Così come il servizio sanitario risponde ai problemi di salute delle persone, si crea un servizio che si prende carico delle persone quando hanno problemi occupazionali.
Con poche righe di decreto e senza nessuna indicazione e riflessione su cosa si farà, il Governo ha chiuso l’esperienza iniziata anni fa e ha riportato le competenze nell’ambito di una direzione dentro al ministero del Lavoro. L’Agenzia era nata male, diciamo sotto una cattiva stella. In primo luogo, aveva una struttura di governance che avrebbe potuto funzionare solo se il referendum avesse approvato la riforma costituzionale rivedendo la distribuzione dei poteri del Titolo V fra Regioni e Stato sulle politiche del lavoro e della formazione. Il risultato referendario ha invece confermato la divisione concorrenziale dei compiti, lasciando così una situazione di assenza di uniformità sulla base di un minimo comune denominatore delle politiche del lavoro da assicurare a tutti. È rimasta così in vigore una differenza fra regione e regione che crea differenze di diritti e situazioni inaccettabili. Per esempio, un’impresa con stabilimenti in più regioni deve applicare regole diverse per utilizzare i contratti di apprendistato. Oppure un giovane che ha frequentato un corso di abilitazione professionale in una regione che si vede negare l’abilitazione per esercitare la professione nella regione confinante perché i programmi seguiti hanno alcune differenze rispetto a quelli previsti nel territorio dove dovrebbe lavorare.
Questa situazione ha permesso alle regioni di rifiutare il coordinamento nazionale quando non è diventato un vero e proprio boicottaggio degli obiettivi che si cercava di perseguire. L’esperienza della prima fase di Garanzia giovani ha illuso che si fosse trovato un modus vivendi perché si accettava un sistema informativo unico e poi una differenziazione di obiettivi in base alle esigenze territoriali. I risultati sono stati poi un ricorso ai tirocini, grandi impegni di formazione finalizzati ai formatori più che in risposta alle competenze richieste dal sistema produttivo e così il prosieguo del programma ha dato scarsi risultati di occupazione di qualità per i giovani coinvolti.
Questa esperienza ha messo in rilievo il secondo errore che ha accompagnato la nascita dell’Anpal. I finanziamenti previsti erano assolutamente scarsi. Se si voleva realizzare lo spostamento dalle politiche passive a un sistema di politiche attive era indispensabile fornire le risorse per rendere evidente che questo era il nuovo modello di intervento e che gestiva le risorse per supportare le transizioni da lavoro a lavoro anche con i sostegni al reddito necessari, oltre a fornire formazione e assistenza alla persona. È questo d’altro canto il modello delle agenzie degli altri Paesi europei a cui si era ispirato il modello italiano. Nel caso francese, l’agenzia creata all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, Anpe, aveva ereditato la rete dei servizi territoriali per l’impiego oltre a fondi e strutture dell’Inps francese che gestiva, come da noi, le politiche passive.
Quindi, governance che non poteva realizzare il coordinamento nazionale necessario e assenza delle risorse indispensabili per dare forza ai modelli di intervento hanno minato fortemente l’esperienza di Anpal.
Altrettanto da ridefinire è il ruolo strategico che dovrà avere Anpal Servizi. Questo struttura tecnica era al servizio di Anpal per definire programmi e metodologie di intervento, oltre a poter esercitare ruoli sussidiari per i territori che non dovessero essere in grado di realizzare i programmi nazionali avviati.
La decisione del Governo di chiudere l’Agenzia e riportare all direzione ministeriale preposta alle politiche attive i compiti lascia il nostro Paese senza un soggetto realizzatore di una gamba fondamentale del nuovo welfare e senza un soggetto capace di coordinare le politiche del lavoro necessarie per realizzare gli obiettivi previsti dal Pnrr per la parte di politiche del lavoro e della formazione.
È attualmente in corso la realizzazione del programma GOL, Garanzia occupabilità lavoratori, punto fondamentale del Pnrr per il lavoro. Ha finanziamenti per oltre 4 miliardi e prevede di coinvolgere 3 milioni di lavoratori entro il 2025. La prima fase prevede obiettivi relativi alla sola presa in carico delle persone e ha ottenuto buoni risultati. Abbastanza ovvio, perché si trattava di “travasare” elenchi esistenti verso gli operatori pubblici e privati accreditati per svolgere servizi al lavoro. La fase successiva di formazione e accompagnamento a una nuova occupazione è quella determinante per poter dire che l’investimento del Pnrr ci lascerà, oltre a un significativo investimento sul capitale umano, una rete di servizi efficienti capaci di gestire le transizioni del lavoro che saranno sempre più la caratteristica dei percorsi di vita lavorativa.
Sicuramente Anpal era nata male e ha solo vivacchiato. La cancellazione senza indicare come rispondere all’esigenza di avere un’Agenzia che assicuri un modello nazionale di servizi al lavoro crea però un vuoto peggiore. Anche in questo caso il Governo ha agito contro le decisioni precedenti, ma senza una strategia per il futuro. Sarebbe ora di capire che questo è un atteggiamento infantile comprensibile per chi sta all’opposizione, intollerabile per chi ha voluto la responsabilità di governare.
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