È uscita la nota del ministero del Lavoro, sviluppata con il supporto di Inapp, con i dati del monitoraggio del Programma GOL. Ne ha già parlato su queste pagine Palmerini. Ne torno a discutere per mettere in rilievo alcuni aspetti che ritengo indicativi dei problemi più generali che caratterizzano il nostro mercato del lavoro e il sistema di servizi al lavoro avviati con GOL.
Partiamo appunto dal sistema dei servizi. Come già più volte detto, il finanziamento Pnrr dedicato al lavoro ha due macro-obiettivi: avviare un sistema di servizi per coloro che ottengono un sussidio di sostegno per arrivare ad avere un’occupazione, sia singoli che per interventi collettivi in presenza di crisi aziendali, e per i disoccupati in generale; inoltre, si è investito per rafforzare la rete dei Centri per l’impiego.
Se prendiamo il dato generale della capacità dei Centri per l’impiego di prendere in carico le persone e avviarle a uno dei servizi previsti per la ricollocazione dobbiamo dire che l’investimento ha dato i suoi frutti. Nel primo periodo fra presa in carico e avvio dei servizi passavano in media 126 giorni mentre oggi, prendendo il terzo trimestre 2024 per avere dati più consolidati, siamo a 16 giorni di media. Ad avere un’opportunità per iniziare una politica attiva si è passati dal 48,2% dei presi in carico a fine 2022 al 71,8% di fine 2024.
Sono dati che indicano un sensibile miglioramento, ma che nello stresso tempo ci confermano che il dualismo territoriale è ancora molto forte con squilibri significativi. Un dato reso ancora più grave perché le regioni con maggiore ritardo hanno migliorato i tempi di avvio dei servizi, ma per una bassa percentuale di persone prese in carico. A ciò si aggiunga che il modello applicato dalle singole regioni non sempre è corrispondente al modello posto alla base di Gol. Il risultato è che laddove lo sviluppo dei servizi al lavoro era basato su una rete aperta, la presa in carico era possibile indifferentemente attraverso operatori pubblici e privati, si ottengono oggi risultati peggiori che con i modelli regionali preesistenti.
L’imbuto creato attraverso i Centri per l’impiego nella presa in carico riduce la capacità della rete di servizi esistenti. Il caso Lombardia, prima regione ad avere avviato politiche attive del lavoro, sta a indicare che affinché la sperimentazione Gol diventi modello di politica attiva del lavoro universalistica e permanente si dovranno rivedere molti parametri che oggi vincolano e frenano le potenzialità presenti nei territori.
Il secondo tema che emerge dai dati di monitoraggio è quello relativo a quanti lavoratori inseriti nel programma hanno bisogno di riqualificazione. Facendo una valutazione solo quantitativa risultano pressoché quanti sono i lavoratori che le imprese denunciano di non trovare per mancanza di competenze richieste. Almeno dai dati delle indagini Excelsior che con regolarità ci indicano la crescente difficoltà delle imprese a coprire posti vacanti.
La composizione dei partecipanti classificati nella categoria di riqualificazione vede un forte peso della componente giovanile, 15-29 anni. A questo dato si somma che il 60% del totale dei partecipanti ha solo la licenza media inferiore, vi è una piccola percentuale di qualifiche professionali e il 29% ha un diploma secondario.
Uno degli obiettivi concordati in sede europea per il Pnrr era che almeno il 75% di quanti venivano avviati a una politica attiva del programma Gol fossero soggetti vulnerabili. Si intende con ciò che facciano parte di una di queste categorie: donne, giovani under 30, adulti over 55, disoccupati da 6 mesi e oltre, persone con disabilità.
Nel percorso 3 dove sono collocati coloro che devono acquisire nuove competenze, reskilling, il 95,6% dei partecipanti appartiene a una categoria vulnerabile. È il cluster con il tasso maggiore di vulnerabilità e in più molti soggetti sommano più di una caratteristica. Ma la cosa che balza agli occhi è che rappresentano plasticamente i deficit di formazione di competenze che si rilevano nelle valutazioni dei giovani che si affacciano al mercato del lavoro.
Fin dalla partenza abbiamo un sistema formativo ed educativo che non corrisponde né alle esigenze delle imprese, né al desiderio dei giovani di avere uno sviluppo delle proprie competenze che assicuri autonomia sul mercato del lavoro. In primo luogo, è ancora troppo debole il canale della formazione tecnico-professionale. Sia per il primo livello della Iefp che poi per i percorsi superiori fino all’Its abbiamo pochi frequentanti e il ritardo della crescita del sistema duale, scuola lavoro, pesa nel mancato contrasto all’abbandono scolastico.
Si aggiunga poi la quota di diplomi della secondaria superiore che non corrispondono a nessuna preparazione lavorativa o risultano obsoleti rispetto alle competenze richieste e otteniamo la proiezione dei dati di quanti richiedono interventi di reskilling per ritrovare una propria occupabilità.
In questi stessi giorni Inapp ha reso noti i dati sulle competenze cognitive degli adulti. Ora nel nostro Paese il 35% dei residenti compresi fra i 16 e i 65 anni ha ridotte competenze nella lettura e comprensione dei testi e nella capacità di utilizzo delle informazioni matematiche (contro il 25% della media Ocse).
Metter assieme questi dati porta a individuare nell’ambito delle politiche attive del lavoro la necessità di investire maggiormente nella parte formativa offerta alle persone in tutti i percorsi previsti dal modello per corregger un evidente deficit formativo che tocca tutta la popolazione.
Il modello a cluster predefiniti è anche da questo punto di vista una gabbia rigida che crea inefficacia. Le reti aperte pubblico-privato con una maggiore personalizzazione dei percorsi formativi sono da individuare come lo sviluppo naturale per correggere anomalie che emergono da questa prima pur importante sperimentazione. Formazione e certificazione delle competenze devono diventare prassi delle politiche attive offerte per potenziare il capitale umano lungo tutto l’arco della vita lavorativa.
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