Nei giorni scorsi si è scritto e si è detto molto riguardo il blocco dei licenziamenti. L’attenzione suscitata dal tema è dovuta in primo luogo alle gravi conseguenze sociali che porterebbe la rimozione del blocco, in secondo luogo per le tensioni interne al Governo nate in seguito alla trattativa tra i sindacati e il ministro del Lavoro. Non è ancora chiaro se sia stato Orlando a non aver rispettato la linea politica concordata in Consiglio dei ministri oppure se Draghi e l’ala destra dell’esecutivo abbiano ceduto sotto le pressioni di Confindustria. Fatto sta che l’apparente proroga del blocco dei licenziamenti, smentita successivamente, ha creato diverse frizioni all’interno della maggioranza.
Il dibattito pubblico, la cui attenzione si è concentrata principalmente sullo scontro in atto, ha tralasciato altri aspetti fondamentali della vicenda, ovvero la riforma degli ammortizzatori sociali e una forte spinta alle politiche attive del lavoro. Questi due provvedimenti, fortemente legati tra loro, sarebbero fondamentali per sostenere e rigenerare il mondo del lavoro, aiutando le aziende ad acquisire e sviluppare nuove professionalità con cui rispondere alle sfide della nuova normalità. La crisi economica dovuta alla pandemia ha impattato gran parte del tessuto produttivo italiano, è quindi doveroso immaginare degli strumenti che permettano alle aziende di ripensare il proprio modello di business e ai lavoratori espulsi dal mercato del lavoro di poter rientrare grazie allo sviluppo delle proprie competenze professionali.
Circa 10 anni fa il Governo Monti, vedi riforma Fornero, e poco dopo il Governo Renzi, vedi Jobs Act, sono intervenuti pesantemente in materia di ammortizzatori sociali riformando la precedente normativa e costituendo l’assetto che a oggi conosciamo. Venne costituita la Naspi, un’indennità di disoccupazione omogenea per tutti i lavoratori dipendenti dalla durata massima di 2 anni, eliminando le disparità tra lavoratori artigiani, lavoratori dell’industria o dei servizi, la cui durata prescindesse dall’età anagrafica ma si basasse esclusivamente sui 4 anni di lavoro precedenti al licenziamento. Venne abolita l’indennità di mobilità, concessa solo ai lavoratori dipendenti delle aziende industriali con più di 15 dipendenti vittime di licenziamenti collettivi, che poteva arrivare a durare fino a 5 anni. Vennero inoltre introdotti dei fondi bilaterali, come il fondo Fsba per il comparto artigiano o il Fis per i servizi, per tutti quei settori che non potevano accedere alla cassa integrazione ordinaria.
La riforma del Jobs Act avrebbe dovuto essere completata con l’introduzione di politiche attive del lavoro per tutti i lavoratori disoccupati. Il fallimento della riforma costituzionale, e la conseguente fine dell’esecutivo Renzi, frenarono questo cambiamento lasciando la riforma incompiuta. L’idea renziana prevedeva che la competenza delle politiche attive del lavoro sarebbe dovuta passare dalle Regioni allo Stato, e si creò un ente ad hoc che potesse gestire le politiche attive: l’Anpal.
Oggi ci ritroviamo con degli ammortizzatori sociali esclusivamente passivi che non favoriscono né la riorganizzazione aziendale, né lo sviluppo delle competenze dei lavoratori. Un’Anpal che è sostanzialmente un ente privo di potere decisionale e i Centri per l’impiego che non riescono né ad orientare i disoccupati all’interno del mondo del lavoro e nemmeno a intermediare la domanda e l’offerta di lavoro tra aziende e disoccupati.
Ci provarono i 5 Stelle a riformare i Centri per l’impiego, ed ebbero l’occasione per farlo durante il Governo Conte 1, ma decisero di impegnarsi prima nell’assunzione dei Navigator rimandando la riforma di sistema.
Ripensare il modello dei Centri per l’impiego, magari immaginando una partnership con il mondo del privato come possono essere le Agenzie per il lavoro o le scuole professionali, e garantendo a chi percepisce l’indennità di disoccupazione di essere adeguatamente orientato e formato per rientrare nel mondo del lavoro, potrebbe in parte ovviare alle conseguenze sociali dello sblocco dei licenziamenti e permettere alle aziende di acquisire quelle professionalità che oggi cercano senza successo.
Misure come il Fondo nuove competenze, che permette ad aziende che organizzino formazione il pagamento dell’intero costo orario del dipendente che partecipa alla formazione, dovrebbero essere sostenute e ampliate permettendo, con incentivi statali alternativi alla cassa integrazione, alle aziende di crescere, svilupparsi, ripensarsi e quindi migliorare il proprio posizionamento sul mercato o acquisire nuovi segmenti.
Si potrebbe anche ipotizzare che tutte quelle aziende che chiedano la cassa integrazione straordinaria debbano produrre un piano industriale dettagliato che dica esattamente in quale modo si voglia rilanciare il proprio business affinché la richiesta di Cigs venga approvata. Magari immaginando una commissione che approvi il progetto non composta esclusivamente da funzionari Inps, ma allargata anche a rappresentanti datoriali e sindacali. Affinché i soldi pubblici non vengano usati per sostenere aziende decotte, ma favoriscano la transizione del nostro sistema produttivo.
Le sfide che il Governo Draghi dovrà affrontare nel prossimo futuro sono ampie e complesse. La speranza è che ci sia la voglia di mettersi al lavoro, superando le scaramucce tra gli schieramenti, e magari creando un tavolo permanente sul lavoro aperto anche alle parti sociali dove riuscire a progettare il futuro del mondo del lavoro italiano.
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