A quanto pare per le politiche del lavoro son cambiati i suonatori, ma la musica sembra essere quella di prima. Non è un motivo di scandalo, data l’urgenza di varare un provvedimento che faccia fronte alle perdite di fatturato e di reddito legate all’attuazione delle misure per contrastare una pandemia che non sembra avere fine. Quello che sorprende, semmai, è la ribadita intenzione di voler costruire, in queste condizioni, una credibile riforma degli ammortizzatori sociali destinata ad accompagnare il potenziamento delle politiche attive del lavoro, e il rafforzamento del reddito di cittadinanza, come insieme di strumenti funzionali ad affrontare le drammatiche conseguenze occupazionali dell’emergenza sanitaria.



Come cercherò di dimostrare, in questo tipo di approccio si annida il rischio concreto di una deriva assistenziale delle politiche del lavoro. Alla luce delle stime economiche più aggiornate, per l’Italia saranno necessari poco meno di tre anni per tornare sui volumi del Prodotto interno lordo registrati nel 2019. Per il mercato del lavoro questo si traduce in un aumento delle perdite occupazionali già accumulate nel corso del 2020 (440 mila posti di lavoro in meno, e un corrispettivo aumento di 160 mila disoccupati e di 400 mila persone inattive) per la maggior parte attribuibili alle mancate assunzioni delle donne e dei giovani. Nella migliore delle ipotesi, quella che il rapido impiego delle nuove risorse europee possa accelerare i tempi della ripresa economica, per i prossimi due anni la domanda di lavoro delle imprese rimarrà comunque al di sotto della crescita del numero delle persone in cerca di lavoro, per la contemporanea riduzione del numero degli occupati e per le mancate risposte alle nuove coorti di ingresso nel mercato del lavoro. 



Questo non significa affatto che il mercato del lavoro rimarrà immobile. Nel corso del 2020, il numero delle nuove attivazioni si è ridotto del 30% rispetto alle 6,2 milioni dell’anno precedente, mentre quello delle cessazioni si è ridotto in modo più contenuto per effetto del blocco dei licenziamenti. Un graduale ritorno sui numeri precedenti, a partire dal secondo semestre dell’anno in corso, non consentirà di recuperare l’aumento dei disoccupati, ma rappresenta comunque una condizione per offrire delle opportunità di lavoro per evitare la formazione di un bacino ulteriore di disoccupati di lunga durata (stimato sul numero delle persone che cercano il lavoro da più di 12 mesi e che attualmente rappresentano circa la metà dei disoccupati).



Nei prossimi anni il compito principale delle politiche del lavoro diventa quello di attenuare in modo ragionevole l’impatto del personale in esubero delle imprese, senza compromettere la competitività delle stesse, e di gestire in modo efficace le transizioni verso nuove opportunità di lavoro, migliorando le competenze delle persone ed evitando il più possibile la permanenza delle stesse nella condizione di disoccupato cronico.

Per l’anno in corso il numero degli esuberi ufficiali, rimane condizionato dalla soluzione che sarà trovata per superare il blocco dei licenziamenti. Un ruolo fondamentale per contenere l’impatto delle dismissioni di personale continueranno ad averlo le casse integrazioni, soprattutto quelle in deroga, che il nuovo Governo conferma di voler utilizzare anche per gestire in modo differenziato gli interventi di sostegno per i settori dei servizi, a partire da quelli della ristorazione, alberghiero e dell’intrattenimento collettivo, particolarmente colpiti dalle misure di distanziamento anti-Covid.

Alla luce di tutto questo è ragionevole pensare a una riforma strutturale degli ammortizzatori sociali? Buona parte degli esponenti politici e delle parti sociali ritiene che la riforma sia indifferibile per far fronte alla lacune nella protezione del reddito messe in evidenza nel corso della crisi Covid per molti comparti dei servizi, delle piccole imprese, dei lavoratori stagionali o con carriere discontinue e per i lavoratori autonomi. Per i datori di lavoro viene vista come una condizione per potersi svincolare dal blocco dei licenziamenti. Per i sindacati dei lavoratori rappresenta comunque una risposta alle preoccupazioni comprensibili di milioni di lavoratori.

Ma un provvedimento di riforma varato in una condizione di emergenza si presta a molte controindicazioni. Nell’attuale condizione, l’impatto negativo sulle attività produttive e sui redditi delle persone è generato da fattori extra-economici che stanno producendo effetti differenziati sui settori e sulle aziende. Effetti differenziati che continueranno a richiedere, per un tempo non breve, provvedimenti altrettanto mirati di sostegno alle imprese e ai lavoratori. Interventi che sono incompatibili con il presupposto di fare una riforma degli ammortizzatori sociali che si proponga di offrire soluzioni strutturali, e con regole e finanziamenti precostituiti su base assicurativa con il concorso dei contributi delle imprese e dei lavoratori, per fronteggiare le condizioni di criticità indotte da fattori economici e di mercato, e alla perdita involontaria del lavoro. 

Questo vale per le imprese e per i lavoratori dipendenti e per quelli parasubordinati, e a maggior ragione dovrebbe valere per i lavoratori autonomi verso i quali, nelle intenzioni dei riformatori, dovrebbero essere estese le tutele sulla base delle perdite di fatturato subite. L’intenzione di introdurre delle coperture assicurative anche per o periodi di discontinuità lavorativa, analogamente a quanto avviene attualmente per il mondo agricolo, si presta ad abusi conclamati, stimolando di fatto la simulazione di rapporti di lavoro di breve durata, e con contribuzioni a basso costo, per poter usufruire di sostegni al reddito più vantaggiosi.

La pretesa di estendere i sussidi sulla spinta emotiva dell’emergenza che ha origini sanitarie, contenuta nelle bozze predisposte dalla commissione di esperti nominata dall’ex ministro del Lavoro Catalfo, si è subito rivelata insostenibile dal punto di vista economico. Un approccio che fa assimilare la riforma a un tentativo di estendere per cerchi concentrici il reddito di cittadinanza (per il quale, non a caso viene proposto un aumento dei finanziamenti di lungo periodo) mettendo gli oneri a carico della collettività, e snaturando la funzione assicurativa degli ammortizzatori sociali. 

In Italia è diffusa la singolare opinione, ampiamente codificata nell’impianto normativo del reddito di cittadinanza, che l’estensione dei sostegni al reddito rappresenti una condizione per il successo delle politiche attive per il lavoro. E come tale utilizzata, paradossalmente per espandere il perimetro, e gli oneri, delle politiche passive.

Il successo delle politiche attive del lavoro, come sottolineato in alcuni articoli precedenti, viene pregiudicato dall’assenza di una vera governance degli interventi, da risorse che continuano a essere disperse in una miriade progetti inconcludenti, e da una blanda gestione delle regole che impongono la compartecipazione dei beneficiari dei sussidi nella ricerca attiva di nuove opportunità lavorative. Come dimostrato in diversi studi, e in un recente articolo avente per oggetto l’analisi dei tre interventi più importanti di politica attiva del lavoro in Italia, il successo delle politiche attive in termini di reinserimento lavorativo risulta essere inversamente proporzionale all’intensità e alla durata dei sussidi al reddito. Più elevati e durevoli nel tempo sono i sussidi e meno successo hanno le politiche attive del lavoro. 

La vera sfida dei prossimi due anni è quella di evitare la formazione di un rilevantissimo bacino di disoccupati di lunga durata assistiti, complementare a un aumento delle persone scoraggiate e inattive. In queste condizioni tutte le opportunità di lavoro contrattualmente previste devono essere utilizzate come occasione per mantenere attive le persone, e per migliorare le loro competenze con percorsi formativi ragionevolmente rapportati alle loro caratteristiche.

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