Dopo un periodo di preparazione e implementazione delle opportune procedure, dicembre ha visto l’entrata in vigore e la piena operatività di una delle principali novità del Contratto collettivo nazionale di lavoro delle agenzie di somministrazione: il diritto mirato a percorsi di riqualificazione. I beneficiari di questa politica attiva nazionale del settore della somministrazione sono tutte le persone che abbiano lavorato con un contratto tramite agenzia per il lavoro per almeno 110 giorni e risultino disoccupati da 45 giorni. Queste persone hanno tempo 68 giorni per richiedere l’attivazione del diritto mirato ai percorsi di riqualificazione.
Operativamente questo diritto soggettivo consiste nella possibilità per la persona di individuare liberamente una qualsiasi agenzia per il lavoro presente sul territorio al fine di richiedere la “presa in carico”: in questo modo il diritto viene attivato e la persona verrà coinvolta dall’agenzia per intraprendere una serie di azioni finalizzate alla propria ricollocazione. Queste attività comprendono l’orientamento e il bilancio delle competenze, oltre all’attivazione di un percorso formativo professionalizzante.
Proprio su questo ultimo punto, abbiamo previsto che l’offerta formativa promossa dalle agenzie sia sempre pubblica e trasparente, in modo da essere anche uno strumento di orientamento per le persone nella delicata fase di individuare l’agenzia per il lavoro alla quale affidarsi. Siamo perfettamente consapevoli che l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro si presenta come un percorso connotato da imprevedibili opportunità e quindi non totalmente catalogabile e uniformabile, ma allo stesso tempo, affermando il principio della libertà di scelta, occorre introdurre tutte le condizioni necessarie affinché l’esercizio di questa libertà sia sempre più consapevole e responsabile.
Complessivamente l’agenzia per il lavoro ha 12 mesi di tempo per riuscire nella ricollocazione, avendo a disposizione finanziamenti del settore per intraprendere tutte le attività necessarie per accompagnare la persona verso un nuova occasione lavorativa. Lo strumento necessiterà di un monitoraggio puntuale, di sicuri correttivi e di modalità gestionali per rendere questa tutela sempre più corrispondente con i bisogni dei lavoratori. Allo stesso tempo dobbiamo riconoscere che per la prima volta nel panorama contrattuale nel nostro Paese è stata negoziata una politica attiva finalizzata a non lasciare da sole le persone alla scadenza del loro contratto di lavoro.
In un mercato del lavoro sempre più instabile, diventa fondamentale costruire tutele finalizzate non solo alla protezione del posto di lavoro, ma orientate a dare risposte alla ricollocazione e riqualificazione dei lavoratori, in una dimensione di tutela dell’occupabilità e della qualità del lavoro lungo tutto l’arco della vita professionale.
L’importanza della tutela introdotta, oltre ad avere un valore in sé, in quanto contribuisce a rilanciare ulteriormente il lavoro in somministrazione nell’ambito della “buona flessibilità”, negoziata e quindi tutelata, deve essere considerata anche alla luce di quella che è l’evoluzione (o meglio, involuzione) delle politiche attive nel panorama nazionale. Siamo infatti in una fase di paradossale regressione dei servizi al lavoro e delle politiche attive. Due esempi su tutti: reddito di cittadinanza e dote unica lavoro della regione Lombardia.
Il primo è un disastro annunciato. Il peccato originale del reddito di cittadinanza, che lo caratterizza come misura assolutamente assistenzialistica, riguarda l’inopportuna commistione tra il contrasto alla povertà e contemporaneamente della disoccupazione. È innegabile che la povertà e la disoccupazione devono essere oggetto di una “lotta senza quartiere”, perché l’assenza del lavoro e la condizione di povertà economica sono dimensioni che un Paese civile deve necessariamente contrastare. Servono però politiche serie e mirate per affrontare problemi gravi e complessi. Il reddito di cittadinanza, pensato per combattere entrambi i problemi, con un approccio alquanto approssimativo, denota tutta la sua inadeguatezza. Infatti, solo una piccola parte dei percettori del reddito di cittadinanza si è rivelata formata da persone in grado di poter sostenere un percorso di ricollocazione, avendo la necessità di superare prima problematiche di natura sociale più rilevanti. Inoltre, ci sono aspetti anche territoriali da tenere in considerazione. In diverse Regioni del sud il problema principale non è l’assenza dei servizi al lavoro, ma la mancanza del lavoro in quanto tale. Non solo è inopportuno rinchiudere in un unico strumento le politiche di contrasto alla povertà e quelle a sostegno dell’occupazione, ma su questo secondo versante servono interventi dedicati in base alle situazioni e alle caratteristiche territoriali: in alcune casi serviranno prevalentemente politiche attive e servizi al lavoro, in altri sarà necessario incentivare economicamente le assunzioni, in altri ancora bisognerà innanzitutto prevedere interventi strutturati di rilancio dell’intero sistema economico locale.
Il riferimento invece alla dote unica lavoro, riguarda purtroppo un inatteso decadimento del modello di politiche attive e servizi al lavoro preso come riferimento per una decennio nel nostro Paese. I principi caratterizzanti il “modello dote” della regione Lombardia sono stati traditi. Paradossalmente, la contrattazione nel settore della somministrazione nella costruzione del diritto mirato ha cercato di mutuare un approccio che è stato ripudiato dalla stessa Regione che ha dato origine al modello più innovativo e funzionale di politiche attive del nostro Paese. L’attuale fase 3 della DUL si attesta a numeri impietosi: in 10 mesi sono state prese in carico 3.000 persone, quando nelle edizioni precedenti si viaggiava a una media di 5.000 al mese.
Per analogia, se il reddito di cittadinanza ha abolito la povertà, la nuova edizione della dote unica lavoro ha abolito la disoccupazione, introducendo una serie di modifiche assolutamente incoerenti con una lettura di prospettiva del mercato del lavoro. La Lombardia deve continuare ad avere una visione innovativa. La partita oggi non si gioca più solo su un aspetti quantitativi di contrasto alla disoccupazione (favorire quindi la collocazione del numero più elevato di persone), ma bisogna provare ad affrontare la sfida di come i servizi al lavoro possono dare un contributo a incrementare anche la qualità del lavoro. Ci troviamo davanti a fenomeni di part-time involontario, lavoro intermittente, contratti giornalieri. Queste persone seppur formalmente occupate, necessitano comunque di un accompagnamento per migliorare la propria condizione.
Da questa analisi possiamo trarne un insegnamento dal punto di vista generale: quando le politiche (in senso lato, ma in particolare sul versante del “lavoro”) sono condivise, concertate e negoziate con le parti sociali, o comunque con i corpi intermedi che sono in grado di leggere la realtà, le sue sfaccettature e anche i suoi pericoli e le possibili distorsioni, allora il risultato è quasi sempre positivo, perché la politica si mette al servizio della realtà. Quando invece questo non avviene, ed oltre a negare un confronto si denigrano gli stessi attori sociali, perché si intende la politica in modo innaturale, come se la realtà si dovesse adattare alla politica (o peggio ancora alla tecnica), allora il risultato non può che essere deludente. La delusione è tanto più grave se fino al giorno prima eri anche un modello di riferimento.